20 settembre 2018 h 17.50
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto

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Giappone: non solo manga o anime
// Il ragazzo e l’airone // Penguin Highway // True mothers // Drive my car // 5 è il numero perfetto (nel commento: Quaderni giapponesi di Igort) // Mirai // Un affare di famiglia // Mr Long (attore cinese, ambientazione giapponese) // L’isola dei cani (regista americano, ambientazione giapponese) //

Famiglia (genitori e figli)
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Nei giorni scorsi – mi hanno raccontato – sono arrivati due camion, hanno parcheggiato nel cortile comune, due operai sono saliti nella vecchia casa e l’hanno svuotata completamente di tutto quanto era rimasto, dei mobili che non siamo riusciti a portare via.
Le case moderne non possono contenere tutti gli oggetti che, attraverso molte generazioni, si sono accumulati in una grande casa antica.
Ci sono sedie su cui abbiamo appoggiato il fondoschiena per una vita intera, intorno alla tavola da pranzo, ma negli ultimi tempi erano sgangherate, i sedili quasi sfondati, non valeva la pena recuperarle.
In fondo le avevamo abbandonate da tempo; erano rimaste lì, segnali spenti di un modo di vivere, di una quotidianità, e ora si trovano su uno dei due camion o, forse, nella stazione ecologica, in attesa di essere smembrate.
Sicuramente è andato via anche il tavolo della cucina, sono andati via i cassetti pensili, il mobiletto accostato al muro nello stanzino, pieno di cianfrusaglie, di piccoli segreti, la vecchia sdraio imbottita di cuscini su cui L. aveva trascorso giornate intere negli ultimi anni.

Passava dal letto alla sdraio e viceversa, ogni tanto un giro lento sul “passetto”, il terrazzino lungo e stretto, per innaffiare le piante.
Badare al proprio aspetto era diventato faticoso, inutile.

Chi l’avrebbe detto! Nessuno, avendola conosciuta, fino a pochi anni fa, avrebbe mai potuto ipotizzare una trasformazione così radicale.

In tempi passati, in fondo al passetto, dipinta sul muro di fronte, c’era un’immagine.
Rappresentava San Giovanni Battista bambino con, accanto, un agnellino. Consumata dal tempo, era stata ricoperta con la vernice e sostituita da una stampa che riproduceva una variante del Sacro Cuore di Gesù di Pompeo Batoni (1767, Chiesa del Gesù, Roma): capelli ondulati, sciolti sulle spalle, espressione un po’ fessa, barbetta adolescenziale, pizzetto diviso in due, cuore fiammeggiante in una mano, sormontato da una piccola croce.

Il passaggio dal San Giovannino dipinto sul muro da un artista sconosciuto alla stampa del Gesù di Batoni era il segno della banalizzazione del gusto e, forse, anche del sentimento religioso, un po’ come il passaggio, nelle chiese, dai canti antichi con il sottofondo dell’organo alle schitarrate che accompagnano le canzonette cantate in coro nelle messe attuali.
Un tempo anche i non credenti potevano ascoltare con piacere le musiche d’organo e i canti in latino, una lingua che pochi conoscevano, ma dal suono familiare e, nello stesso tempo, sacro.
Quelle parole antiche, a volte pronunciate senza coglierne in pieno il significato, annunciavano il mistero.
Il Mistero. Per chi non crede, come me, il Mistero è la Poesia.
Adesso si capisce tutto, ma è dura sopportare i testi e le musiche banali che accompagnano la messa.

Con il passetto, organo vivo della casa, avevo un rapporto affettivo dai primi anni di vita.
Non avrei mai acconsentito a trasformarlo in un corridoio per “ammodernare” la casa (in alcuni momenti è stata un’ipotesi strampalata, anche se, per fortuna, non realistica); non avrei mai acconsentito a staccare (anche solo per un po’, per rifare il solaio) l’antica cornice di marmo del caminetto, i suoi disegni interrotti da rotture, screpolature, riparazioni, macchie di fumo, segni del tempo (avrei detto: trovate una soluzione, il camino non si tocca); non avrei mai acconsentito a trasformare le finestre, a modificare gli spazi.

Hai voglia a ripetere: «non avrei mai acconsentito», quasi per convincere te stesso. Solo l’uovo, quando lo cuoci, diventa duro; tutto il resto, se lo cuoci, si ammolla. Un’amica siciliana mi ha insegnato questo proverbio.

Mi sarei ammollato anch’io, per non creare contrasti, perché non avevo alcuna intenzione di tornare ad abitare stabilmente in quella casa, nel “natio borgo selvaggio”; non ero l’unico erede, dunque non potevo pretendere di decidere da solo.
Mi sarei ammollato, ma con dolore. Avrei smesso comunque di ritornarci, se fosse stato modificato il passetto, modificati gli spazi, toccato il camino. Anche se la casa non fosse stata venduta ma “ammodernata” in maniera selvaggia, non avrei più voluto vederla.

Meglio com’è andata: ora la mia casa, che non era solo mia, nella mia testa non esiste più e non m’importa nulla delle trasformazioni che potrà subire.
È come se ci fosse stato un terremoto: c’è stato un passaggio di proprietà, che determina un passaggio di legame affettivo.

Gli organi vivi (il passetto, il camino, le finestre, le grandi porte) non si potevano impacchettare come ho fatto con le fotografie che amo di più, con i due comodini che erano accanto al letto matrimoniale, con la piccola, antica scrivania su cui ho imparato a leggere e a scrivere.

Gli organi vivi della casa sono legati ai ricordi tristi, angosciosi, dell’ultimo periodo, all’esperienza terribile che, pare, debba toccare a tutti, di assistere alla trasformazione delle persone a cui vogliamo bene.

Ho, come molti, una memoria selettiva, cerco di cancellare i ricordi spiacevoli. Qualche volta ci riesco, almeno a livello conscio, ma devo stare attento a non mitizzare il passato.

La scrivania nuova (truciolato ricoperto da un vetro) era malridotta; parlo della scrivania che aveva preso il posto di quella piccola ma spaziosa, razionale, antica, di legno vero, piena di cassetti e di comodità (il leggio estraibile), appartenuta al fratello di mia nonna, forse a qualcuno prima di lui. Questa era la scrivania legata all’infanzia, alle prime letture, ai quaderni a righe o a quadretti, messa da parte, riempita di cose inutili, sostituita quando sembrava che il nuovo segnasse un salto di qualità nella gestione della vita.

Quante cose antiche, nel corso del tempo, erano state sacrificate e sostituite con oggetti dorati!
Solo pochi spazi si erano salvati, solo poche pareti non erano state ricoperte da gigantografie invasive.

Intanto è stato possibile liberare dai tarli l’antica scrivania di legno, ed essa ha ripreso il suo compito con piena efficienza, direi quasi, con allegria; in questo momento i suoi cassetti circondano le mie gambe.
Cambio posizione: sollevo le gambe, le piego, appoggio i piedi scalzi sulla superficie orizzontale della scrivania; il legno levigato, con gli spigoli arrotondati, offre una presa dolce; il quaderno (l’iPad) è appoggiato sulle ginocchia piegate; potrei usare una penna biro per scrivere su un quaderno vero, posso leggere un libro per ore.
Ho ritrovato la posizione: lo scheletro non ha più l’elasticità di quando ero un ragazzo che scopre il fascino della lettura, il coccige necessita di un cuscino di protezione, ma sto bene, comodo.

La scrivania di truciolato, uguale a mille altre, irrecuperabile, inutilizzabile, ormai inguardabile, a quest’ora sarà finita nella stazione ecologica: l’avranno smembrata nei suoi tre pezzi già prima di caricarla sul camion, scuotendosi di dosso la polvere causata dalla segatura compressa e incollata.
Gli antichi (fino verso la metà del novecento) costruivano gli oggetti con l’intenzione di farli durare nel tempo, di trasmetterli ai figli, ai nipoti, ai pronipoti.
Ora si costruisce pensando di agevolare lo smaltimento quando, tra poco, l’oggetto diventerà un rifiuto; si distinguono nettamente le parti: vetro, plastica riciclabile, metalli, rifiuti indifferenziati.
Viviamo nell’illusione dello sfruttamento senza limiti delle risorse del pianeta, ma, a ben vedere, anche l’intenzione degli antichi era un’illusione, sebbene ecosostenibile.

Sono felice di avere salvato i Lari (le foto della nonna e del bisnonno), che ora mi guardano sereni, rassicuranti: «Prima o poi tutto diventa cenere, la cenere si scompone nei costituenti molecolari; gli atomi riprendono il loro moto, che non hanno mai smesso. Tutte le cose, compresi il passetto, il camino, l’arancio abbattuto tanti anni fa per fare posto a una brutta scala di marmo, il forno, il pollaio, una parte del giardino, distrutti per costruire un brutto edificio, tutte le cose, comprese queste fotografie, sono provvisorie. Noi eravamo provvisori, e anche tu sei provvisorio.»

«Perché ti lamenti? Da dove viene lo spirito polemico che ti assale ogni volta che ripensi a un’infanzia favolosa, a un cortile favoloso che, forse, non è mai esistito? Rari momenti di gioia e di meraviglia rimasti nella memoria ti portano a mitizzare il passato. Anche noi eravamo pieni di problemi, ma, è vero, c’era la casa. Se ci rifletti, devi riconoscere che da anni la casa non c’era più. Mancava solo l’atto finale (i camion nel cortile), uno degli atti finali: il pavimento sarà sfondato per rifare i solai, il tetto sarà ricostruito, le finestre saranno modificate, altre cose verranno di seguito. Nessuno si opporrà alle trasformazioni. Nessuno griderà: fermi, questa è la mia casa!»

«Resteranno solo alcune immagini, tanto da chiederti se è mai esistita veramente, se siamo mai esistiti o siamo il frutto della tua memoria selettiva, della tua tendenza a mitizzare il passato.»

Sarebbe stato troppo complicato metterla in sicurezza, allontanare il pericolo di cedimenti strutturali, ora che a quella casa erano legati solo ricordi, e non tutti belli.
La vecchia casa è finita non ora, è finita quando la famiglia è finita, con i suoi componenti chiave, con le sue catene invisibili; è rimasto l’affetto tra i sopravvissuti, ma non ci sono più catene invisibili: ora ognuno è libero, come diceva Luigi Tenco.

Mi sono svegliato con in testa le canzoni dell’adolescenza e un sogno che, nel dormiveglia, mi sembrava realtà.
Trasferivo gli spaghetti nella pentola, con un gesto meccanico che catturava la mia attenzione.
Poi ho guardato mia madre, giovane come la ricordavo solo nelle fotografie.
Mi trovavo in un nuovo ambiente, di cui prima ignoravo l’esistenza, costruito sul tetto della casa: una capanna accogliente, nella quale regnava una grande pace, un silenzio profondo.

Mi sono detto: è il posto giusto per leggere.
Poi mi è venuto in mente che mia madre non c’è più da tanto; mi sono detto che devo abituarmi alla sua assenza, che quell’ala della casa, sul tetto, di cui avevo sempre ignorato l’esistenza, non è più mia; forse, ho pensato, potrei tornare di nascosto lassù, ogni tanto, approfittando del fatto che solo io conosco quel posto, in cui c’è tanto silenzio, tanta pace. A questo punto mi sono svegliato.

Che cos’è la famiglia?

È una domanda a cui cerca di rispondere il film che ho visto al cinema Odeon di Pisa, in piazza San Paolo all’Orto, senza mancare, prima di entrare in sala, una capatina alla Gipsoteca di Arte Antica, nella chiesa sconsacrata di San Paolo all’Orto (ripeto sempre gli stessi gesti, la stessa liturgia; cerco di ancorarmi con forza alla realtà attuale, ora che le radici, già allentate, si stanno staccando definitivamente, una per una).
La chiesa ha una facciata semplice, armoniosa; trasmette un senso di pace, sullo sfondo del cielo sereno di Pisa, in un pomeriggio di fine settembre.

Già nel titolo italiano (Un affare di famiglia), non in quello inglese (Shoplifters, taccheggiatori), il film richiama l’entità su cui – quasi universalmente, anche se con molte varianti – è fondato il modo di vivere di tanta gente.

C’è una famiglia giapponese che si arrangia per tirare avanti, in una società arretrata: informatica diffusa, robot, intelligenza artificiale, treni superveloci e sfruttamento ottocentesco dei lavoratori.
Il padrone di un’azienda può dire a due lavoratrici: una di voi sarà licenziata perché prendete uno stipendio troppo alto, decidete voi quale delle due.
Il lavoro si prende, si perde, senza regole.
Nessuna solidarietà tra i lavoratori, in un regime di concorrenza spietato; nessuna amicizia resiste.

In una società supercontrollata si può sparire nella massa, perché l’individuo non conta, non si conosce il vicino di casa o il compagno di lavoro: «Hai una famiglia? Credevo vivessi da solo», dice il giovane operaio che ha accompagnato a casa il compagno ferito a una gamba.
La solitudine è il terrore dei vecchi; gli assistenti sociali cercano di speculare sulle case spettanti agli anziani, apertamente, quasi facendo un vanto del proprio cinismo.

In questa giungla pericolosa, in cui si rischia continuamente di essere abbandonati, la famiglia è un posto sicuro, un rifugio dove riscaldarsi quando fuori fa freddo.

I giapponesi, quelli del film, i giapponesi poveri, sembrano avere una capacità speciale a sistemarsi dentro spazi ristretti: si siedono per terra, piegati sulle gambe, dormono distesi su piumini, dentro scatoloni, o quasi.
Le loro case, quelle che si vedono nel film, assomigliano alle costruzioni giocattolo degli spazi, nei parchi, riservati ai bambini.

Mangiano, i personaggi del film, passandosi gli spaghetti molli da un piatto all’altro, anche dal piatto della nonna sdentata, prendendoli con le bacchette, portandoli alla bocca, succhiandoli, aspirandoli in un modo che da noi sarebbe considerato poco educato, che a me risulta particolarmente disgustoso (sarà un problema di abitudini).
Sicuramente nella realtà le situazioni sono varie, sono vari i modi di mangiare, come da noi; sto parlando di ciò che si vede nel film, che descrive la vita di una famiglia giapponese povera.

Il padre, operaio saltuario e dotato di poca voglia di lavorare, arrotonda con piccoli furtarelli e insegna al figlio, un ragazzino che non va a scuola, a rubare nei supermercati, nei negozi, perché «la merce, finché è esposta, appartiene a tutti» (da qui: “Shoplifters”).
Il metodo consiste nel non farsi prendere dal panico, nel controllare la situazione. Il ragazzo apprende e applica: prima di entrare in azione fa un simpatico giochino con le dita.

La madre, lavandaia in un’azienda, sfruttatissima (nessun diritto, nessuna garanzia), quando ha l’occasione ruba o copre senza problemi una compagna di lavoro che ruba.

La figlia grande si esibisce in un peep show (peep è sbirciare, ma una traduzione maccheronica potrebbe essere: lo show delle pippe): si spoglia, accenna atteggiamenti erotici, mentre un guardone, o, semplicemente, un timidone, nascosto dietro a un vetro, la guarda (sbircia).
Una specie di prostituzione light, senza, apparentemente, segni sul corpo.

Scopriremo che il cliente più affezionato, il numero quattro (s’immaginerebbe un vecchio imbolsito e impotente) è un uomo giovane, taciturno, malinconico, che desidera solo farsi accarezzare la testa appoggiata sulle gambe della ragazza.

La nonna è l’unica a poter disporre di un’entrata fissa, la pensione: la mette a disposizione della famiglia.
Non vuole morire in solitudine; ha fatto una scelta: in cambio della compagnia, del legame, dell’affetto, mette a disposizione della famiglia le sue entrate (alcune non proprio oneste) e anche la casa giocattolo, che le spetta (quando arriva l’assistente sociale i ragazzini devono uscire, non farsi vedere).

La vita della famiglia procede senza scosse; non è facilissima, ma ha i suoi momenti di allegria (sapere che esiste un rifugio dove riscaldarsi quando fuori fa freddo mette allegria).

Il padre, nelle sue scorribande insieme al figlio, trova, letteralmente trova, una bambina abbandonata su un terrazzino, al freddo.
La bambina ha segni di percosse sulle braccia.
Provengono dalla casa, oltre il terrazzino, le urla di una donna e di un uomo che litigano.
Il padre porta la bambina a casa sua; la famiglia, dopo un momento di esitazione, l’accoglie.

Chi non l’avrebbe fatto? L’avremmo affidata alla polizia, ma non se fossimo stati ladruncoli che hanno una situazione irregolare e, ovviamente, hanno paura della polizia.
Irregolare perché?
Perché – veniamo a sapere nella seconda parte del film – in questa famiglia nessun legame è legale, nessuno: anche il ragazzo era stato trovato in un parcheggio, la vecchietta sdentata vive con loro, insieme alla nipote, in base a un accordo.
Sono tutti estranei che si sono trovati, si sono messi insieme, si sono scelti.

Eppure è una famiglia, sembra dirci il regista, anzi è l’unica famiglia possibile: fra persone che si sono scelte perché hanno paura della solitudine, perché erano abbandonate, perché avevano bisogno di affetto.

Anche la bambina, ultima arrivata nella casa, che non chiede mai di tornare dalla madre naturale, ha scelto. La sua vera madre è questa donna che l’abbraccia con tenerezza e non la rimprovera quando bagna il letto (la nonna, con dolcezza, le dà da leccare un po’ di sale: un vecchio metodo dei suoi tempi).
Ci sono scene di affetto commoventi, in particolare tra la madre e la nuova arrivata: scene che sembrano spontanee, improvvisate, anche se sappiamo che sono studiate, ripetute, registrate per fare un film. È questa la magia del cinema (in certi posti era definito “l’imbroglio nel lenzuolo”).

Regista geniale, attori bravi, film da vedere.

Per una volta mi tocca benedire il doppiaggio (non m’importa di contraddirmi rispetto a precedenti affermazioni), perché la lettura delle didascalie mi avrebbe distratto dalle inquadrature, perfette, dai primi piani degli attori, capaci di comunicare con il volto (linguaggio universale), per cui importa meno sapere esattamente che cosa dicono nella loro lingua.
Per questo il film, pur riferendosi a una situazione particolare e a un fatto di cronaca (così dicono, non so se sia vero, ma non importa e non ho voglia di indagare), parla a tutti, a noi che viviamo in realtà, socialmente e culturalmente, molto diverse dai protagonisti del racconto.

Interviene lo stato, anzi: lo “Stato”, con la polizia, gli psicologi, competenti, disponibili (non capiscono nulla), con gli assistenti sociali, che riportano la bambina alla madre naturale che la picchiava e continuerà a chiuderla sul terrazzino; mettono il ragazzino in un istituto («dove starai con altri ragazzi»).
La ragazza del peep show rimane sola (forse troverà il cliente numero quattro, ma non credo, è troppo rovinato); la nonna, fortunatamente, è morta: altrimenti l’avrebbero messa in un ospizio per “salvarla”; lo speculatore edilizio sarà riuscito a fare i suoi affari.

I componenti della famiglia sono separati bruscamente.
La “madre” è trattata come una psicopatica: la giovane psicologa, con la sua subdola razionalità, le sue certezze, il suo sguardo indagatore, riesce a smontarla, a convincerla di avere torto. Tutto l’amore che lei riversava sulla famiglia, senza chiedere niente in cambio, nessuna certezza, è considerato follia.

Le catene invisibili che legavano in modo indissolubile i componenti della famiglia sono recise con la forza; i legami si sciolgono come neve al sole (è una metafora che mi gira nella testa, dev’essere una canzone … ecco: «prendi questa mano, zingara» … eccetera).

Eppure, passato il tempo necessario, quando il padre (non naturale, illegale) esce dalla prigione e va a vivere in una scatola ancora più piccola, è lui che il ragazzo cerca per andare a pescare e per fare un pupazzo di neve.
Mentre torna, nel pullman, all’istituto dove lo hanno parcheggiato, il ragazzo finalmente riesce, fra sé e sé, a chiamarlo papà.

Chi è tuo padre? Il vero tuo padre? Tuo padre è uno che non ti fa paura, uno di cui ti fidi (non importa se è un ladruncolo, con te è onesto); è uno con cui vuoi andare a pescare, perché ti piace stare insieme a lui, ascoltarlo, raccontargli l’ultimo libro che hai letto, anche se non sa leggere e forse non capisce, ma gli piace ascoltarti; è uno che corre follemente, disperatamente, dietro un pullman, solo per dirti che ti vuole bene (il ragazzo risponde, tra sé e sé: «anch’io, papà, ti voglio bene»).

La bambina che avevano salvato guarda fuori del terrazzino, per strada, con la speranza di rivederli.

L’Arno, che attraverso sul Ponte di Mezzo, andando verso la stazione dopo avere visto il film, scorre.