6 novembre 2018 h 18.30
Cinema Arsenale Pisa – vicolo Scaramucci, 2

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Un corridoio del Sacro Eremo di Montesenario – Vaglia (Firenze).
Siamo immersi nel buio; non basta, per illuminare il presente, la lampada che si scorge in alto a sinistra di chi guarda. La luce in fondo al corridoio è accecante, permette a mala pena di distinguere una pianta in un vaso, una vetrata, forse un’apertura.

A volte si ha l’esigenza di rivedere come è stato affrontato al cinema, utilizzando questo mezzo che può essere molto frivolo, ma anche molto profondo, un tema da cui “nullu homo vivente po’ scappare” (Francesco d’Assisi). In altri termini: si ha bisogno di rivedere un film di Ingmar Bergman.

Non è l’unico regista che si è occupato di questo argomento, forse in tutti i film si parla anche della morte, come in tutte le creazioni artistiche.
Però è noto che Ingmar Bergman ha rappresentato l’argomento in numerosi film, in maniera esplicita, senza ripararsi dietro ai simboli, collegandolo all’altro tema che lo angosciava: il silenzio di Dio.

Bisogna tenere presente che da ragazzo era stato vittima di un’educazione fortemente connotata dal punto di vista religioso. Il padre, pastore luterano, lo portava con sé quando andava a predicare nelle chiese e chiesette nei dintorni di Stoccolma.
Dev’essere terribile, per chi è stato condizionato nell’infanzia a ritenere indispensabile l’esistenza di Dio per la propria felicità, constatare da adulto che questo “essere perfettissimo, creatore e signore del cielo e della terra”, pregato e invocato in tutti i modi, si sia rivelato, tutto sommato, assai poco desideroso di comunicare con noi.
I tempi mitici nei quali faceva ogni tanto capolino dall’alto dei cieli – magari per imporre a un poveraccio di ammazzare il figlio, e il poveraccio abbassava la testa ubbidiente davanti a quel Dio che rivelava un’insospettata tendenza al sadismo (ma qualche segno c’era già stato con lo scherzetto della mela) – quei tempi favolosi non sono mai esistiti, con tutto l’accompagnamento di mari che si dividono, popoli eletti, agnelli sacrificali, cibi impuri, tagli di prepuzi, riti e obblighi annessi.
Tutto inventato? Sembrerebbe di sì, considerando che in tempi molto più vicini a noi, praticamente l’altro ieri, questo Dio che ci ama, è geloso e preferisce non essere nominato (se non vuoi non ti nomino; superbo, geloso, suscettibile, praticamente intrattabile!), non ha mosso un dito per salvare il “popolo eletto”, perseguitato, spogliato di tutto, torturato, sterminato nelle camere a gas. Forse non esiste, o, se esiste, non vuole occuparsi di noi.

Il Settimo Sigillo è la trasposizione cinematografica di un’opera teatrale dello stesso autore, ambientata nel medioevo scandinavo; vari riferimenti letterari, pittorici, musicali (raccontò di avere tratto ispirazione anche dall’ascolto dei Carmina Burana).
Nel cinema si inventa la realtà, attuale o storica che sia; anche la scenografia più fedele alla memoria personale, o alla memoria collettiva conservata nelle biblioteche e nei musei, passa attraverso la fantasia del regista.

In ogni film che si rispetti gli spettatori si identificano con qualcuno dei personaggi. Non ricordo con quale mi identificassi quando l’ho visto la prima volta, in un cineforum. Il professore di religione della scuola che frequentavo, padre Raffaele Russo da Pozzuoli, un bravo giovane prete di cui ho un buon ricordo, organizzava un cineforum che, per un periodo, fu dedicato ai film di Bergman.
Per partecipare saltavo il pranzo; finita la scuola mangiavo un panino e restavo a Napoli fino a sera (abitavo in provincia). Al ritorno, nel 160 nero, mentre cercavo di fare i compiti per il giorno dopo, sballottato dal pullman, ero contento.

Dopo un po’ di tempo il film fu trasmesso in televisione.
Siamo in anni di molto successivi al 1957, anno in cui aveva vinto il premio speciale della giuria al Festival di Cannes, ex aequo con I dannati di Varsavia di Andrzej Wajda. A quei tempi per arrivare alla televisione i film impiegavano molti anni: la televisione non faceva concorrenza sleale alle sale cinematografiche.

Se c’è una cosa per cui noi provinciali dobbiamo essere grati a Internet è la possibilità di essere aggiornati in tempo reale su tutto ciò che viene prodotto nel mondo. Non è necessario vivere nelle metropoli per essere al corrente di ciò che accade in tutti i campi.
I tempi a cui mi riferisco sono quelli della televisione monopolista, in bianco e nero e con due soli canali. Quella televisione, fortunatamente, non lasciava molta scelta.
Dico fortunatamente perché i miei familiari si sarebbero precipitati a cambiare canale se dall’altra parte ci fosse stato un programma leggero; la signorina annunciatrice (un’istituzione di quegli anni, come Carosello e la TV dei ragazzi) non avrebbe fatto in tempo a dire completamente il titolo del film (trasmettiamo Il settimo …), per voto unanime della famiglia saremmo passati al Secondo Programma, come lo chiamavamo allora e lo leggevamo sui giornali (con le maiuscole).

I miei familiari non avevano partecipato al cineforum; mio padre, lavorando tutto il giorno, di sera non aveva la “capa fresca” (la mente abbastanza libera dai pensieri) per occuparsi dell’esistenza di Dio davanti al televisore.
Devo dunque ringraziare padre Russo (facendo il prete e l’insegnante di Religione aveva la “capa fresca”), il cineforum e il monopolio televisivo della RAI se – verso la metà o forse la fine degli anni sessanta – una sera non andai a letto all’ora solita ma rimasi, da solo, fino a tardi, a vedere Il settimo sigillo per la seconda volta.
Non riesco a centrare il ricordo con esattezza; in realtà non ricordo neanche su quale dei due canali e a che ora il film fu trasmesso.
Ho dimenticato molti particolari, ricordo la gioia di trovarmi in quella situazione, di poter rivedere un film su cui avevo avuto delle dritte per comprenderne il significato (i cineforum erano una grande cosa); la stanza con il camino acceso, il silenzio nella casa addormentata, la concentrazione.
Ero adolescente; credo mi identificassi con il saltimbanco; certamente mi ero un po’ innamorato di quella ragazza svedese, la meravigliosa Bibi Andersson, che lo trattava con modi dolci e condiscendenti.
Mi affascinavano gli ambienti nordici, la libertà sessuale (che veniva fuori con naturalezza, soprattutto in altri film di Bergman), la rappresentazione dei sogni e degli incubi notturni (l’incipit di “Persona”). Era un cinema completamente diverso dal solito, un’esperienza nuova, da tenere un po’ nascosta. Era difficile rendere partecipi altri dei propri pensieri: si rischiava di essere presi in giro.

Ne è passato del tempo!
Bibi Andersson era una delle due “muse” del cinema di Bergman (l’altra era Liv Ullman).
Mi sono domandato quanto sono cambiato rispetto a quella sera di tanti anni fa in cui ho visto per la seconda volta, in perfetta solitudine, in televisione, mentre tutta la casa dormiva, “Il Settimo Sigillo” di Ingmar Bergman. Quanta gente era viva, e ora non c’è più!
Mi sono risposto che sono cambiato molto poco.
L’aspetto è cambiato: i capelli sono bianchi e una grande quantità di ormoni ha preso il volo.
Di conseguenza il personaggio del film con cui mi identifico ora non è più il giocoliere che aveva la fortuna di essere trattato con amore dalla splendida Bibi Anderson; è lo scudiero.

Lo scudiero non ha paura degli uomini e non ha paura degli spiriti.
Non ha paura degli uomini perché (beato lui!) è forte e sicuro di sé.
Non ha paura degli spiriti perché non ci crede e non si lascia impressionare dai segni apparentemente soprannaturali; mi piace perché ama le canzoni comiche, perché tratta male il doctor mirabilis divenuto ladro di cadaveri, prende un po’ in giro il cavaliere che si è rovinato la vita facendosi imbrogliare dal doctor mirabilis, e, soprattutto, guarda in faccia la morte, fino alla fine.
Finge di non averne paura e la guarda in faccia; le sue ultime parole sono: «Farò silenzio, ma mi ribello».

Il cavaliere vuole fare un’opera buona prima di rassegnarsi a morire (ci riuscirà), ha bisogno di un altro po’ di tempo, da impiegare tormentandosi per il silenzio di Dio e illudendosi di poter risolvere i dubbi. Li confessa a un prete, dentro a un confessionale, e si fa imbrogliare di nuovo (ingenuo questo cavaliere!). Lo scudiero, invece, ha deciso: chiederà lui conto a Dio (se esiste) del suo silenzio.

A proposito di silenzio: colpisce l’assoluta mancanza di suoni che accompagna i titoli di testa; oramai siamo abituati alla sovrabbondanza dell’accompagnamento sonoro, dal primo all’ultimo minuto. Quando non si sente la musica sembra che manchi qualcosa.

Una giovane donna – lo scudiero l’ha trovata in una casa abbandonata, accanto a un cadavere – dice una sola battuta in tutto il film: «L’ora è venuta»; la dice alla fine, quando la morte è entrata nella sala per prenderli; come se l’aspettasse da sempre, come se fosse una liberazione.
Una ragazza è torturata e bruciata viva come strega; il monaco è impassibile nelle sue certezze (quanti guai ha combinato e continua a combinare la fede!).

Non so quale sia il personaggio peggiore del film, se il doctor mirabilis o il monaco che legge nei suoi libri senza provare alcuna pietà per la povera ragazza.
Lei spera di essere veramente indemoniata: se è vero ciò che i preti danno per certo, il diavolo verrà a salvarla.

C’è il corteo dei flagellanti, a cui certamente si è ispirato Mario Monicelli nel suo L’armata Brancaleone, e, soprattutto, in Brancaleone alle crociate, dove troviamo anche l’Angelo della morte che contratta con il nobile cavaliere Brancaleone da Norcia; due film comici, ma, si è detto all’inizio, la morte, al cinema, è sempre presente, anche se in modi diversi, secondo la personalità del regista. Lo strumento per scuotere lo spettatore può essere una risata (Monicelli) o un’atmosfera angosciosa (Bergman).

L’angoscia, evidentemente, è nelle corde di Bergman (ma anche lui, in altri film, si è divertito), è adatta all’ambiente nordico luterano, fissato con le Sacre Scritture, fissato con le visioni cupe tratte dall’Apocalisse di Giovanni, i vaneggiamenti che ognuno può interpretare come gli pare.
Meglio, assai meglio, un’infanzia in ambiente cattolico: quel po’ di Vangelo e di lettere di San Paolo ascoltate distrattamente la domenica, a messa, pensando alla partita di pallone o alla ragazzina seduta nella panca più avanti, o, la ragazzina, al chierichetto dal viso simpatico che fa le smorfie per farsi notare. Dopo l’infanzia si andava in chiesa sempre più raramente (nessuno ci forzava), guadagnandone in salute psichica, date le domande che i preti facevano nel confessionale.

Il Settimo Sigillo pone quesiti, non dà risposte; la morte personificata sembra quasi Àtropo, la Parca che spezzava il filo della vita.
La morte sega l’albero su cui l’attore “sciupafemmine” ha trovato rifugio per la notte, dopo essersi salvato con la sua arte dalla vendetta del fabbro. La morte è implacabile, indifferente alle sue preghiere; sogghigna e porta a termine la sua opera. Sul tronco reciso salta uno scoiattolo: il ciclo della vita continua.

Il cavaliere riesce a distrarre la morte facendo cadere i pezzi degli scacchi in modo che non si accorga della fuga dei due giovani attori con il bambino.

Su questa partita a scacchi si sono dette e scritte molte cose dotte; a me sembra una perfetta costruzione cinematografica, inventata per creare la suspense e, quindi, tenere desta l’attenzione dello spettatore in un film che altrimenti risulterebbe troppo piatto, privo di movimento: gira gira, stanno sempre nello stesso posto. Basta confrontare con il lungo percorso dell’armata Brancaleone – non mi riferisco, ovviamente, alle distanze fisiche ma a ciò che si vede sullo schermo, all’illusione creata dalla Lanterna magica (rubo il titolo di un libro di Bergman).

Ci appassioniamo alla partita, che ogni tanto riprende, perché la posta in gioco è la massima possibile per un vivente e la morte è sembrata subito più simpatica, più umana, meno terrorizzante, quando ha accettato la sfida e quando ha cercato di imbrogliare, fingendosi confessore per scoprire il gioco del cavaliere.
Il gioco degli scacchi si basa rigorosamente sulla logica; non è consentito barare. Un’azione scorretta darebbe la vittoria al cavaliere, ma quella che vediamo, più che una partita a scacchi, sembra una partita a carte tra due amici in una trattoria napoletana o in un’osteria trentina; si sorridono, si prendono un po’ in giro, si scambiano battute (la più divertente all’inizio del gioco: «Il nero si addice alla morte, non credi?») per passare un po’ di tempo prima che il destino inesorabile si compia.

La morte sa che non sarà il risultato di una partita a scacchi a mutare la sorte del cavaliere.
Àtropo, l’inflessibile, non si fa influenzare dal risultato di una partita tra amici; si fa distrarre perché la sorte dei tre rappresentanti della vita, i due giovani e il loro bambino, non è ancora segnata. Finge di distrarsi, ma li avrebbe salvati comunque, anche se non fossero scappati: sa che il tempo dei tre non è giunto alla fine. Per gli altri il filo sarà spezzato inesorabilmente, qualunque cosa facciano, qualunque viaggio intraprendano.

C’è un momento in cui la morte si umanizza totalmente: quando sembra condividere il dubbio sull’esistenza di Dio e, al posto del consueto ghigno, appare un’espressione sofferente.
In un’atmosfera cupa che non dà tregua sono disseminate scene di gioia.

La scena che più mi dà un senso di allegria si svolge all’inizio – poco dopo il colloquio del cavaliere con la morte, poco dopo l’immagine terrificante del cadavere in putrefazione che fu accorciata nella prima versione italiana del film dai nostri stupidi censori (forse credevano si trattasse di un vero cadavere in pelle e ossa).
La scena che più mi rallegra è il risveglio del saltimbanco: si libera di un insetto, fa qualche capriola, qualche esercizio di giocoleria, si schiarisce la gola, dà il buon giorno al fedele cavallo che lo aiuta in ogni circostanza e non chiede nulla in cambio, si gira e … vede la Madonna che porta a spasso il bambino.
La visione di un vero artista, che vede più degli altri, vede con la sua fantasia, non come il cinico pittore che rappresenta, per meschino interesse personale, «quello che vogliono i preti».
Forse questo personaggio esprime l’odio del regista nei confronti degli autori delle immagini di morte che lo avevano tanto impressionato da bambino nelle chiese visitate insieme al padre. Bergman dice che, in fondo, anche quei pittori erano asserviti a un’ideologia ottusa e oppressiva, finalizzata a terrorizzare gli uomini per renderli schiavi.

Le scene macabre iniziali sono interrotte dal risveglio della famigliola: il saltimbanco, Bibi Andersson (com’era bella quella ragazza!), il bambino che ha dormito in un cesto appeso.
Il bambino cammina gattoni nel prato – chissà che tipo di uomo è diventato, se ha fatto l’attore! Nel film ha una presenza scenica straordinaria, conquista il centro dell’attenzione, cattura l’attenzione dovunque appaia. Il saltimbanco canta una canzone accompagnandosi con il liuto, la moglie lo abbraccia dormendo un altro poco.

È l’esaltazione della vita in una situazione in cui sembra prevalere la morte. Il regista ci guarda negli occhi e ci dice: sai benissimo che questo è ciò che rimpiangiamo quando la morte si presenta con la sua falce. Sono attimi di felicità, ma quanto, quanto importanti!
La vita è l’incontro conviviale, sereno, a base di latte e fragole, che si svolge poco prima del dramma finale: il cavaliere beve il latte dalla grande ciotola e prende le fragole dalle mani della ragazza; il gesto è stato collegato all’ultima cena di Cristo e discepoli.
Non so se questa fosse l’intenzione dell’autore, forse è un riferimento al messaggio originale del Cristianesimo, però l’immagine religiosa che rimane più forte, dopo avere visto il film, è il frate che legge i testi sacri, indifferente alle sofferenze della povera strega; viene da pensare: speriamo che il diavolo la aiuti! – Anche se fosse veramente una strega, non potrebbe essere più cattiva di un ottuso religioso, impermeabile al dubbio e alla pietà, chiuso nella sua fede incrollabile.

Addirittura il maligno per definizione è superato in cattiveria dal frate incappucciato.
L’altro religioso fanatico che rimane in mente, ma questo perché fa ridere, è il frate predicatore dei flagellanti. Bisogna dire che l’interpretazione di Enrico Maria Salerno dello stesso personaggio comico, nell’armata Brancaleone, con la vocina fessa, è insuperabile.

La morte trascina il cavaliere, lo scudiero, il fabbro e le donne, accomunati in un unico destino; si tengono per mano in una danza macabra. È una scena un po’ vista un po’ immaginata dal saltimbanco, giullare, guitto, attore, artista che la descrive.
Mentre sembra avvicinarsi la fine del mondo (ogni epoca ha avuto e ha la sua), non vale la pena darsi ai vizi, alla violenza, all’autoflagellazione o alla disperazione; meglio stringersi gli uni gli altri, guardare oltre la tempesta, alla vita che rinasce, come lo scoiattolo che salta sul tronco reciso, come i due artisti che portano in salvo il bambino sul carro trainato dal fedele cavallo; sono gli unici che, alla fine, si salvano.
La chiusa del film sembra ispirarsi alle bellissime chiusure dei capolavori di Charlie Chaplin.

Forse la risposta ai quesiti angosciosi posti dal cavaliere si trova nei versi scritti, due anni prima che Ingmar Bergman venisse al mondo, da un grande poeta italiano.

Giuseppe Ungaretti, Sono una creatura
(Valloncello di Cima Quattro, 5 agosto 1916)
Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata.
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede.

La morte
si sconta
vivendo.