13 gennaio 2019 h 17.30
Cinema Principe Firenze – viale Giacomo Matteotti

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Negli ultimi tempi si nota una tendenza delle ombre a ribellarsi.
Prima erano citate come esempio di fedeltà e di obbedienza; si diceva: ti segue come un’ombra.
Ora non più.

L’ombra della foto ha deciso di mettere un copricapo per ripararsi dal sole, mentre il supposto proprietario dell’ombra, impegnato a catturare immagini con la macchina fotografica, non ci ha pensato.
È una ribellione. Forse, guardando con attenzione, si nota anche uno sguardo – è difficile individuare uno sguardo in un’ombra, ma qualcosa s’intravede – ironico, come se pensasse: «Con questo caldo, anziché ripararti dal sole, sempre lì a “catturare immagini”: ti illudi di bloccare il tempo, di fermare l’attimo. In qualche modo catturi una minima parte di ciò che ti colpisce, la metti in un hard disk e la dimentichi. Tempo perso.»

Prima o poi vedremo un’ombra abbandonare il proprietario, dissociarsi da una scelta che non condivide e andarsene per la sua strada. Dopo questo primo gesto di ribellione ne seguiranno altri. Le ombre si staccheranno dagli uomini, resteranno legate solo agli oggetti, agli alberi, agli animali. Le ombre degli uomini andranno a vivere per conto loro, all’ombra delle case; si organizzeranno, si riuniranno all’ombra delle grandi torri, di mattina o di pomeriggio, mai a mezzogiorno. Le ombre sopravviveranno agli uomini che le hanno prodotte, formeranno un’umanità alternativa all’attuale, molto più tranquilla, serena, forse eterna.

Lette le anticipazioni sulla trama, visto il trailer, Vice – L’uomo nell’ombra mi attirava poco, quasi nulla.
Mi annoia seguire le trame dei politici corrotti che cospirano contro la democrazia; mi stufa l’indignazione a comando davanti a uno schermo cinematografico. Si esaurisce presto: il tempo di rimettersi il cappotto, d’inverno, sollevandolo dalla poltrona accanto, andare in bagno, uscire dalla sala.
L’aria frizzante della sera invernale, ma anche l’aria calda estiva, o fresca primaverile, o autunnale, fa dimenticare l’indignazione, l’impegno e i fieri propositi.
Vado al cinema sperando di poter vivere una (piccola o grande) esperienza emotiva, anche solo per farmi quattro risate, non per dovere, né per recitare la parte del bravo cittadino politicamente impegnato.

Che palle i film di Michael Moore!

Michael Moore, il regista che infila direttamente ed esplicitamente nei film le sue interpretazioni politiche degli avvenimenti, interpretazioni spesso condivisibili, per esempio riguardo alla vendita delle armi negli Stati Uniti, ma non adatte al cinema, nel quale il discorso ha una sola direzione e non deve diventare una predica.
Qualche anno fa è uscito un film, diffuso soprattutto attraverso i DVD distribuiti con un giornale, che denunciava l’uso televisivo del corpo femminile nell’era berlusconiana.
Nonostante condividessi il contenuto del DVD, non riuscii a seguirlo fino in fondo (quando mi annoio mi capita di distrarmi in continuazione e qualche volta di appisolarmi dolcemente).
Era una predica ai convertiti. I convertiti trovano la conferma di ciò che pensano, gli altri affermano che si tratta di manipolazioni; la cosa finisce lì: nessuno si sposta di un millimetro dalla posizione che aveva prima di vedere il film.

Nel commento a Blackkklansman, di Spike Lee, ho scritto che preferisco Fa’ la cosa giusta, dello stesso regista, perché in quel film ci sono momenti in cui lascia l’impegno sullo sfondo e si diverte a raccontare, a descrivere, a prendere in giro anche i suoi (i neri seduti in strada, appoggiati al muro a perdere tempo); si diverte a farci sentire la litania di parolacce razziste che i ragazzi bianchi, neri e variamente colorati si scambiano allegramente prima della tragedia.

Vice – L’uomo nell’ombra era annunciato, nel trailer, come un film di denuncia. Per questo motivo non avevo voglia di vederlo.
Poi G. mi ha raccontato il modo originale di trattare la sequenza temporale degli avvenimenti (va avanti e indietro nel tempo, quando sembra che sia finito ricomincia) e mi ha incuriosito.
Se un film mi attira, vado dovunque; se penso che non possa piacermi, per andare a vederlo devo avere voglia di fare due passi nella zona dove si trova il cinema.

Il film è in programmazione, a Firenze, al cinema Principe, in viale Giacomo Matteotti, a un tiro di schioppo da piazza Libertà.
L’espressione “tiro di schioppo” credo si riferisca alla possibilità di ammazzare qualcuno utilizzando quell’antica arma da fuoco, che non aveva una lunga gittata. Per essere sicuro di usare l’espressione giusta, ho verificato che è possibile, da piazza Libertà, far arrivare una schioppettata davanti al cinema, ma è solo un’ipotesi, dal momento che non ho la disponibilità di uno schioppo e la competenza necessaria per utilizzarlo.

In Toscana ho sempre lavorato e abitato in provincia, mai in città.
Tanti anni fa – tanti da poterli contare sulla punta delle dita delle mani e dei piedi, ammesso di voler soddisfare questo bizzarro desiderio, solo chiedendo ad altre tre persone di mettere a disposizione le proprie estremità per completare il conto, che così diventerebbe laborioso, ma affascinante nella sua inutilità – avevo una padrona di casa, una signora ottantenne, sola, che d’estate abitava in campagna, d’inverno riparava in un appartamento fornito di riscaldamento, in via Madonna della Tosse (in fondo alla strada l’antica chiesetta omonima), una traversa di piazza Libertà, dunque non lontano dal cinema Principe.
Per affrontare il freddo invernale, la signora Olga si trasferiva a Firenze e dava in affitto la casa in campagna. Avevo bisogno della casa solo quando le scuole erano aperte, dunque il nostro accordo era perfetto.
Per riscaldarmi, d’inverno, utilizzavo il camino: compravo la legna e mettevo da parte le pigne che raccoglievo nella pineta (qui le chiamano “pine”).

In seguito, finché è stata tra i viventi, anche dopo essermi trasferito da un’altra parte, ogni tanto le facevo visita in via Madonna della Tosse.
In questo modo esprimevo una forma di gratitudine, perché mi aveva aiutato a risolvere un problema, ma ci andavo non solo per questo.
Mi piaceva il suo modo di parlare.
Le parole e le espressioni antiche sulle sue labbra affioravano senza sforzo alcuno, senza alcun segno di affettazione.
Mi piaceva anche il percorso a piedi dalla stazione Santa Maria Novella fino a quella zona di Firenze che nell’Ottocento era campagna, punteggiata di ville, poi era diventata periferia, poi centro pulsante, collegato al centro storico dai grandi viali, esternamente, e, all’interno, da qualche antica via che cambia gradualmente fisionomia in funzione della presenza dei turisti. 

Una volta la signora Olga mi aprì la porta, come faceva normalmente, per farmi entrare; fin qui niente di strano.
Il citofono non funzionava in quel vecchio appartamento: si pigiava con discrezione un pulsantino posto accanto a una di numerose targhette situate sul muro esterno dell’edificio che era stato razionalista e ora sembrava solo lugubre.
Passava qualche minuto e il portoncino esterno veniva aperto a fiducia, o, forse, dopo un accurato controllo attraverso le persiane chiuse di una delle finestre tutte uguali, precise, che ricoprivano il grande edificio, su più piani, per tutta la sua lunghezza.
Non sempre riuscivo a preavvertire la signora Olga del mio arrivo con una telefonata (non c’erano i cellulari); a volte decidevo all’ultimo minuto, trovandomi a Firenze, di dirigermi verso piazza Libertà per farle visita, a ciò autorizzato da lei: «non si preoccupi, venga quando crede, l’unico rischio è che non mi trovi in casa; se ci sono le apro volentieri».
Salivo cinque rampe di scale (non mi fido dei vecchi ascensori) e mi trovavo davanti alla porta aperta in cui si stagliava la figura antica della signora Olga, vestita come se stesse per uscire a fare due passi con le amiche.
Mi ha sempre meravigliato e riempito di ammirazione la capacità di queste signore di trovarsi in ordine in qualsiasi momento. Io vado in difficoltà se bussa il postino o una vicina di casa; il suono del citofono mi fa trasalire come se avessi qualcosa da nascondere e stesse per entrare il commissario Montalbano: c’è sempre qualcosa che mi sembra fuori posto, nella stanza d’ingresso, nel mio abbigliamento, quando sono costretto ad aprire la porta senza preavviso.
Quella volta dovette verificarsi l’eccezione che conferma la regola, perché, dopo avere aperto la porta, la signora Olga la richiuse, aspettò un minuto e la riaprì facendomi entrare, senza nessuna spiegazione.
Mentre mi accoglieva con frasi gentili, mi invitava ad accomodarmi e mi preparava un caffè, ripetendo, come ogni volta: «spero le piaccia, anche se non è un caffè napoletano», mi domandavo che cosa fosse accaduto in quel momento di pausa, dietro la porta chiusa.

Nella mia testa si era creata una distrazione, una sospensione, come in un film di Hitchcock (un po’ vera, un po’ per gioco).

Gli elementi c’erano tutti: la vecchia signora sola; l’antico palazzo (i due aggettivi si possono invertire), abitato in prevalenza da anziani autosufficienti (a quell’epoca le badanti erano rare, chi non ce la faceva era trasferito nelle case di cura e preparazione al riposo eterno). Incuriositi dal rumore dei passi sulle scale, i coinquilini appoggiano l’occhio allo spioncino; non vedono un tubo, perché sono miopi e la luce è fioca; aprono un pochino la porta lasciando attaccata la catenina che limita l’apertura, per proteggersi da un’eventuale invasione di barbari o di alieni (non si sa mai). Se abitano al piano superiore si sporgono leggermente, gettando un’occhiata prudente sulla tromba delle scale.
Il ricordo di un rumore sordo, mentre salivo a piedi fino al quinto piano («Commissario le ho già detto: non mi fido dei vecchi ascensori»).

«Che rumore?» mi avrebbe chiesto il commissario.
«Non saprei. Un rumore sordo.»
«Possibile che quando riferite di un rumore non potete fare a meno di dire che era sordo?»

Il commissario, esperto di letteratura poliziesca, ha cominciato ad alterarsi. Sbraita: «Incredibile! Un solo aggettivo per descrivere il rumore, per giunta copiato dai telefilm doppiati. Ha mai sentito un rumore acuto, basso, metallico, continuo, intermittente, stridulo, fluttuante, impulsivo?»
Qui comincio a confondermi.
«Ha mai sentito parlare del rumore rosso, con rimbombo, come quando il treno esce dal tunnel o sta per arrivare alla stazione della metropolitana? Ha mai sentito parlare del rumore bianco – un ronzio continuo – del rumore rosa – la pioggerellina primaverile – del rumore marrone, basso, come il borbottio dei tuoni in un temporale che si avvicina? Era il rumore di un oggetto pesante trascinato? Com’era questo rumore? Lo descriva!».
«… Mhmhmh …!»
Il commissario, sempre più alterato: «Quanto è durato?»
«Non ricordo».
«Non saprebbe, non ricorda! Ma che mi racconta? Io intanto l’arresto per occultamento di cadavere».
«Non c’è nessun cadavere!»
«Appunto. Confessi! Dove l’ha nascosto?»

Il thriller cominciava ad articolarsi (una trappola architettata dai nipoti della signora Olga che non si facevano mai vedere ed erano in probabile attesa di un’eredità) quando un leggerissimo filo di saliva, appena visibile sotto al labbro inferiore, mi rivelò il mistero: in quel momento di pausa dietro la porta aveva messo la dentiera. In un attimo ero passato da Hitchcock alla commedia.

Il caffè era leggero per i miei gusti, ma le tazzine, i cucchiaini, i piattini, la zuccheriera … una delizia; facevano pensare che è veramente esistito un mondo in cui anche per la gente comune la qualità contava più della quantità. La signora Olga aveva lavorato in un ufficio da qualche parte, la sua famiglia apparteneva alla piccola borghesia; eppure, nella sua casa, a Firenze, ma anche in campagna, nella casa ammobiliata che mi dava in affitto, c’era un gusto particolare per la bellezza.
Entravi in quella casa e ti sentivi a tuo agio, come se ci fossi nato.
Niente di esagerato, di pacchiano, tutto molto semplice; della casa in campagna ricordo il tavolo di legno, le sedie impagliate, le tendine alle finestre, il camino. Già! Il camino. Ora mi viene in mente un altro camino, ma non cambiamo argomento! (Ah sì? Che cosa hai fatto finora? Mi sembra che tu non faccia altro che cambiare argomento!). Una bellezza rilassante, come la lingua antica della signora Olga.
C’è stato un tempo in cui la gente voleva sorbire il caffè da tazze non solo pratiche, ma belle; un tempo in cui la Richard Ginori era italiana e prosperava (ora appartiene al gruppo Gucci, a sua volta controllato da una società francese; non so quanti dipendenti le siano rimasti). Sul viale Apua (fra Marina di Pietrasanta e Pietrasanta) c’era un grande stabilimento, ora abbandonato, invaso dalla sterpaglia: lo guardo con tristezza ogni volta che ci passo vicino, nelle mie camminate estive.

Torniamo al film.

Non mi attraeva ma era raccomandato da G., il personaggio misterioso, di cui non rivelerò il nome neanche sotto tortura: ne va della sicurezza dello stato! (si fa per dire, potrei anche cedere alle insistenze; non sarebbe necessario ricorrere alla tortura).

I gusti di G., in fatto di film e di libri, non sempre coincidono con i miei; infatti, conscio della responsabilità, dopo le prime espressioni di entusiasmo, si era improvvisamente raffreddato e mi aveva avvertito: «a me il film è piaciuto, a te potrebbe anche non piacere; se hai tempo va a vederlo»; ripeteva «se hai tempo», come se si fosse pentito di avere raccomandato un film con la certezza di esporsi all’elenco dettagliato delle mie critiche, subdolamente estese a tutti gli spettatori che non le avessero condivise in anticipo, fra i quali, evidentemente, c’era anche lui, di cui non rivelerò il nome, a meno di cortesi insistenze (io sono come Massimo Troisi: se mi torturano parlo, gli faccio anche un disegno).

Il mio non gradimento del film, ampiamente prevedibile, si è puntualmente verificato, ma ne parleremo in conclusione del commento, se mai ci arriveremo.

Mi andava di fare una passeggiata sul percorso che facevo tanti anni prima, quando andavo a trovare la signora Olga: l’andata lungo via Cavour (dalla stazione, passando per San Lorenzo) fino a piazza Libertà, il ritorno percorrendo tutta via San Gallo, per cambiare.
Difficilmente al ritorno percorro all’inverso la strada dell’andata; è un’altra delle mie fissazioni. A volte faccio giri lunghissimi per evitare di rifare la stessa strada; lo scrivo nel caso qualcuno, vedendomi all’andata, decidesse di aspettare per incontrarmi di nuovo: perderebbe tempo.

Via San Gallo mi ha da subito – dal nostro primo incontro: un vero colpo di fulmine, un amore a prima vista, certamente ricambiato – ricordato certe strade di Napoli intorno all’Università Federico II, in via Mezzocannone, per i negozietti, le trattorie, le librerie, il selciato sconnesso, le facciate altissime delle case, coperte, ai vari piani, da una selva di persiane che proteggono finestre da cui, ogni tanto, spuntano la testa, le spalle e parte delle braccia di una signora affacciata, sempre la stessa: capelli neri, ricciuti, un bel viso tondo; come si spiega? Non lo so.
Ogni tanto un edificio imponente: Università di Firenze, liceo artistico, chiesa di San Giovannino, ingentilita, nella parte alta, da eleganti ghirigori con esatta simmetria bilaterale e, al centro, la croce dei Cavalieri di Malta.
Qualche portone è aperto e lascia intravedere uno stanzone semivuoto e, in fondo, una porta finestra che dà, sembrerebbe, su un giardino. Si vede la luce del sole attraverso i vetri, si vedono foglie, rami.
Sulla strada, proseguendo: “Rivendita 99 tabacchi”, negozio di vestiti, piccolo piccolo, biciclette, ferramenta, mesticheria, forno, “L’olandese volante”, che merita una foto.

Mi piace osservare, in questa via, la targa o l’insegna di qualunque studio tecnico, dentistico, di medicina generale, di consulenza fiscale, perché al nome si associa sempre la dizione Studio San Gallo; la caffetteria si chiama Il posticino di via San Gallo; una bella libreria si chiama anch’essa San Gallo, come a rivendicare un’identità, un’appartenenza di cui si è orgogliosi. Ci si aspetta che i residenti in questa via, parlando di sé, anche lontano da Firenze, dicano: «Sono fiorentino, sì, di via San Gallo».

Questa antica via è cambiata poco nel tempo: posso testimoniare da quando la conosco; forse così la vedeva, naturalmente senza macchine in sosta, Giuseppe Giusti, quando dal paesello (Monsummano, in provincia di Pistoia), si trasferì a Firenze per lavorare come praticante nello studio dell’avvocato Cesare Capoquadri; nelle sue lettere molti accenni alla vita goliardica condotta prima all’università di Pisa, poi a Firenze, insieme ad altri scapestrati, occupandosi svogliatamente di studi giuridici, secondo il volere paterno (i padri di una volta, convinti di dover decidere il destino dei figli!).

Così la vedeva Aldo Palazzeschi, che parla di queste strade (non solo) e dei personaggi che vi abitavano, nel libro, secondo me, più bello, anche più di Sorelle Materassi, un libro che non mi stanco di rileggere ogni tanto: Stampe dell’800. Ormai è ridotto in fogli sparsi che rischiavo di perdere, finché ho trovato un magnifico Oscar Mondadori fuori catalogo che mi ha reso felice nel momento in cui l’ho ritirato alla Libreria Feltrinelli Red di piazza Repubblica: un bel posto per prendere un caffè, mangiare qualcosa e sfogliare i libri.

Così vedeva via San Gallo la signora Olga quando era giovane, la mia padrona di casa (mi piace molto quest’espressione) che mi raccontava, con la bella parlata fiorentina, episodi della sua vita in tutto e per tutto simili a quelli che zia Tanina (contrazione di Gaetanina), sorella di mia nonna, mi raccontava nell’infanzia con la bella parlata napoletana.

Zia Tanina iniziava ogni racconto con «Pə tə fa capacə a te».

Il simbolo ə designa la vocale centrale media caratteristica della lingua napoletana, come nella seconda e terza sillaba della parola sdrucciola “mammətə” = tua madre, “sorətə” = tua sorella. Vedi anche la nota in fondo al commento al film Achille Tarallo.

L’espressione «Pə tə fa capacə a te» si può tradurre «Per renderti edotto, farti capire bene e convincerti di ciò che sto per dire», più qualche altra sfumatura di significato veicolata dallo sguardo, dalla piega delle labbra, dalla postura, in funzione del tipo di evento – drammatico, luttuoso, nostalgico, allegro – che si accingeva a raccontare.

Tutto introdotto e riassunto da «Pə tə fa capacə a te».

Il rafforzativo (“Pə tə fa” = per farti; “a te”) non è un errore di grammatica (in italiano sarebbe un errore, un’inutile ripetizione) perché serve a concentrare l’attenzione di chi ascolta («bada che sto parlando proprio con te»).

Quando si era assicurata, guardandomi negli occhi, la mia disponibilità a rendermi “capace” – non nel senso italiano del termine, nel senso napoletano, che implica un atto della volontà, implica attenzione, rispetto, disponibilità ad accettare la comunicazione e la realtà di ciò che viene detto (come nell’espressione “fattə capacə” = renditi conto, convinciti) – cominciava a raccontare.

Da persona intelligente, anche se semplice, forse intelligente perché semplice, innanzitutto sgombrava le vie di comunicazione (immagino come avrebbe reagito ora che alcuni ragazzi ascoltano gli adulti tenendo le cuffie sulle orecchie, le dita sulla tastiera, gli occhi sullo schermo).

La signora Olga, alle mie domande, rispondeva: «Cosa vuole che le dica, gli è passato tanto di quel tempo!»; un po’ esitava, si scherniva, sembrava non voler rivangare cose morte e sepolte. Poi cominciava a raccontare e, era evidente, si divertiva a far rivivere il passato, usando con disinvoltura vocaboli che, fino ad allora, avevo trovato solo nei libri: “impiantito”, “popóne”, “codesto”, “mézzo” = bagnato, umido; dove l’ho letto?

Inferno, Canto VII (127 – 130)

Così girammo de la lorda pozza
grand’arco tra la ripa secca e ‘l mézzo
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.

La rima insegna la giusta pronuncia della doppia zeta: /mezzɔ/ (e chiusa, zeta sorda).

In sostanza erano gli stessi racconti di zia Tanina.

La gioventù spensierata e ingenua, i corteggiamenti, la vita prima della guerra, la guerra, i bombardamenti, la paura, gli affetti antichi, quei padri che sembravano monumenti, a cui i figli davano il voi, quelle madri che morivano troppo presto, prima di incanutirsi e non arrivavano mai ad ammalarsi di Alzheimer. Madri eroiche, sopportavano i maschi di casa, i padri, i mariti, vivevano per i figli, poi se ne andavano, lasciando un vuoto colmato dalle immagini della Madonna, nelle chiese e su tutti i tavolini, i comodini, gli armadietti della casa, nei cassetti pieni di figurine, corone del Rosario, librettini con le preghiere specifiche, come le prescrizioni mediche, per ogni evento della vita, per ogni grazia da chiedere o disgrazia temuta.

Se poi la grazia si faceva attendere, subentrava la rassegnazione, l’accettazione della “volontà di Dio”, una medicina che ha perso la sua efficacia da quando abbiamo acquisito la convinzione di essere artefici del nostro destino.

A parte qualche dettaglio, qualche particolarità di stile, il paesaggio e il clima diversi, tra la periferia della città (Firenze) e il paesone agricolo (una diecina di chilometri da Napoli) non c’era grande differenza: la piccola borghesia viveva allo stesso modo, ancorata ai valori – dignità, rispetto – che neanche un’alleanza assurda (che cosa avevamo in comune con le bestie naziste?) e una guerra feroce riuscirono a intaccare.
Al tentativo di farci diventare “popolo di guerrieri” reagiva l’arguzia, lo scetticismo della piccola borghesia: i ricchi alto borghesi, sommersi dai vizi – i nobili, fatui e inconsistenti – i proletari, in perenne attesa di una rivoluzione perennemente rimandata – i sottoproletari, disposti a dare manforte a qualunque potere, furono facilmente infinocchiati; la piccola borghesia subì, come si subisce un terremoto, conservando i suoi valori.

Anche per questo mi piaceva andare, ogni tanto, a fare visita alla signora Olga, per respirare un po’, attraverso i suoi racconti, l’aria che non avevo respirato da bambino – ma avevo respirato un’aria assai simile, ascoltando la voce di zia Tanina – per ritrovare i personaggi che avevo immaginato leggendo.

I libri, come i film, quando sono buoni, hanno questa magia: moltiplicano i ricordi delle esperienze che hai vissuto (alcune nella vita reale, altre nell’immaginazione) – quando sono buoni, come diceva Eduardo del caffè: quando è buono ti fa iniziare bene la giornata, e aggiungeva, dopo una pausa, guardando fisso Pupella Maggio: «Chést’è na ciofèca».

Vediamo se Vice – l’uomo nell’ombra è buono o è na ciofèca.

Il film inizia con una dichiarazione che a me dà fastidio: la storia raccontata è vera.
Stessa dichiarazione iniziale in BlacKKKlansman di Spike Lee; stesso fastidio.

Perché partire ricattandoci? Lascia decidere a noi, a ciascuno di noi, se siamo disposti a ritenere vero il tuo racconto. Ognuno ha diritto alla sua verità, la mia non è uguale a quella di un altro, ogni “fatto” può essere avvenuto in mille altri modi diversi, i fatti possono essersi concatenati in un milione di modi diversi da come tu li presenti.
Stai facendo solo un film, non impiantando una nuova religione; è inutile che mi presenti un credo da sottoscrivere a fiducia. Io non ho fede in cose molto più affidabili di un film; figuriamoci se mi fido di Adam McKay.

Poi il regista ci ripensa, e parte un’altra scritta: la storia è quasi vera, è quasi tutta vera, forse è vera. Non ricordo esattamente quale delle affermazioni precedenti sia riportata.

Qualunque sia la seconda nota, è inutile; sappiamo bene che i film non raccontano mai fatti veri, nella comune accezione del termine, ma sempre, solo, fatti reali, riprodotti, falsificati, raccontati dal punto di vista del regista, del produttore, dello sceneggiatore, del fotografo, del costumista, dell’attore o dell’attrice, delle comparse, della sala, della poltrona su cui sono seduto (per la cronaca: fila L, posto 13, nel caso qualcuno volesse confrontare le verità recepite dai singoli spettatori).

Il film è sempre un racconto fantastico che parte da una realtà (un fatto realmente accaduto, un prodotto della fantasia, un sogno), non è la verità.
L’unica cosa vera che possiamo ricavare da un film, se è fatto bene (se è buono, come il caffè di Eduardo) è la percezione di un ambiente, di un modo di vivere.
Questo film è fatto bene, per cui ne usciamo con alcune informazioni su come si vive alla Casa Bianca e nello stretto entourage del Commander in Chief: il Presidente degli Stati Uniti d’America.

Supponiamo che – ferma restando l’arbitrarietà dei fatti raccontati, da sottoporre a verifica attraverso una ricerca storica rigorosa che non ha niente a che vedere con il film – l’ambiente descritto, i personaggi siano cuciti su quelli veri: è la cosa più semplice da fare e pare che, in questo caso, sia abbastanza riuscita.

Come vive questa gente che s’illude di comandare il mondo e riesce solo a distruggerlo?

In particolare: come mangia?
Malissimo, mangia malissimo.

A un certo punto Bush junior rosicchia delle costatine di maiale o coscette di pollo, in un modo così disgustoso da far diventare vegetariano anche un macellaio.
Rosicchia e parla, parla e rosicchia (Bush senior e Barbara non gli hanno insegnato che non si parla con la bocca piena), alla fine si lecca le dita: disgusting!
Possibile che la scena rifletta il comportamento del vero Bush?

Speriamo di no.

Anche Dick Cheney, che sfoggia un panzone da far paura, mangia i croissant alla crema e parla con la bocca piena; anche lui si lecca le dita: che schifo!
Possibile che i destini del mondo fossero, siano, nelle mani di gente così disgustosa!?

Quei letti!

Cuscini altissimi, testa piegata in modo innaturale: per forza poi gli vengono gli infarti; subiscono trapianti di cuore con la stessa facilità con cui la mia padrona di casa metteva la dentiera: chiudono la porta, i medici affondano le mani guantate e insanguinate dentro di loro, aprono la porta e il gioco è fatto; c’è sempre un cuore palpitante pronto per tirare avanti la loro carcassa ancora per qualche anno.

La moglie di Cheney!

Ma come viveva!? quanto pensava di poter vivere attaccata al potere come una cozza allo scoglio!?
Che se ne faceva del potere!?

Quel Cheney!

La testa sempre piegata (dipende anche dai cuscini), scodinzola dietro alla moglie, dietro al Segretario alla Difesa, una specie di gangster sghignazzante, fino a quando trova un presidente più ex alcolizzato di lui (George W. Bush – la doppia vu sta per doppio whisky) e si prende la soddisfazione di ordinare bombardamenti a tappeto.

Sempre con la testa piegata e il tono di voce di uno che sta morendo.

Il vero Cheney sarà morto?

Ma quello è morto da sempre: la gente così non vive, poveraccia!

Ché, col peggiore spirto di Romagna,
trovai di voi un tal che, per sua opra,
in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.

Dante, Inferno, Canto XXXIII (154 – 157)