20 maggio 2019 h 18.00
Cinema Spazio Alfieri Firenze – via dell’Ulivo, 6

Altro film del regista: // Madres paralelas //

I vecchi
// The Miracle Club // Perfect Days // Adagio (vecchi delinquenti) // Coup de chance e The Old Oak (vecchi registi) // Bassifondi // Scordato // La quattordicesima domenica del tempo ordinario // Il Sol dell’Avvenire // Il ritorno di Casanova // Non così vicino [A man called Otto] // Orlando // Il piacere è tutto mio // Astolfo // Rimini // Nostalgia // Settembre // Belfast // Callas Forever // Cry Macho // Boys // The father [Nulla è come sembra] // Nomadland // LONTANO LONTANO // Le nostre anime di notte (commento al libro) // Herzog incontra Gorbaciov // The Irishman // Dolor y Gloria // Stan & Ollie [Stanlio & Ollio] // Can you ever forgive me? [Copia originale] // Il Corriere [The Mule] // Moschettieri del re // Lucky // Loro // L’ultimo viaggio // Ricomincio da noi // Ella & John //

La malattia
(“Tu sì ‘na malatia / Ca mə passa si tu stai cu me“)
// L’invenzione della neve (malattia mentale) // The father (Alzheimer) // Zona arancione (pandemia) // Zona rossa (pandemia) // Ci risiamo! (pandemia) // Se c’è un aldilà sono fottuto (tossicodipendenza) // Dopo la liberazione provvisoria (pandemia) // L’illogica allegria (pandemia) // La mascherina (pandemia) // Tutto il mio folle amore (autismo) // La linea verticale (cancro) // Arrivederci professore // Dolor y gloria // Domani è un altro giorno // Don’t worry // Quanto basta (autismo) // The party //

Questo film è la rappresentazione di un mondo a parte, un mondo abitato da registi, attori di successo, produttori: gente ricca.
Invecchiano come tutti, come tutti si ammalano; assumono droghe, anche le più pericolose: cocaina, eroina.
Nel nostro mondo di gente comune, se ci facciamo di eroina, dopo poco ci ritroviamo nel famoso tunnel, con la qualità della vita ridotta al minimo: l’eroina è famelica, impone di aumentare le dosi. I soldi non bastano mai.
Nel mondo parallelo, invece, le dosi sono a portata di mano, ci sono amici disposti a procurarle, anche a regalarle ogni tanto; i soldi a disposizione sono tanti, dunque si ha la possibilità di sperimentare e, non sempre, fermarsi all’ingresso del famoso tunnel.
In quel mondo si vive in belle case, piene di quadri di valore appesi alle pareti, di tappeti buttati per terra – in realtà nel film non si vedono tappeti, ma mi è venuta in mente una battuta di Eduardo De Filippo in Natale in casa Cupiello, quando descrive la casa della figlia all’amico di Tommasino.
Per fargli capire che si tratta di una casa ricca dice: «È piena di tappeti buttati per terra» («ittàtə pə terrə»). Questo, per lui, è il segno distintivo della ricchezza.

Dopo una certa età, gli appartenenti a quel mondo spesso soffrono di mal di schiena, come tutti. Come tutti vanno in depressione.
Però loro, quando decidono di curarsi, trovano il medico specialista che li visita immediatamente e si mette a disposizione.
Se hanno bisogno di sottoporsi a controlli importanti, per esempio la TAC, a interventi chirurgici, non fanno la fila: si trovano subito tra le braccia accoglienti di infermiere disponibili, sotto lo sguardo attento di chirurghi amichevoli, in cliniche private munite di tutti i conforti, dove si viene confortati e assecondati nelle proprie esigenze. La gente comune deve attenersi a regole rigide: massimo una persona può tenere compagnia, l’altro deve uscire.
Non sono regole assurde, ma valgono solo dove si paga con le tasse.

I comuni mortali affrontano lunghe liste di attesa, a volte solo per togliersi un dubbio, e nessuno li conforta, anzi sono loro a confortare i medici, depressi perché ridotti a occuparsi di gente che non viene intervistata, non va in televisione: «dottore non si preoccupi, lei è così bravo che certamente diventerà medico delle persone importanti e abbandonerà la gente come noi, che non meritiamo la sua attenzione e il suo impegno».

Il Servizio Sanitario Nazionale – in Italia e, credo, in Spagna – ragiona così: non sei urgente, devi aspettare e non rompere i coglioni. Così impari a non metterti in grave e immediato pericolo di vita. Ora ti spariamo un bel codice verde e aspetti. Se ti fossi buttato sotto a un treno, avresti la soddisfazione di un codice rosso.

L’attore di successo (il personaggio del film) riempie le sale con un monologo in cui racconta un rimpianto, una storia d’amore finita male.
La parte del racconto ripresa in teatro sembra banale, poco interessante. Non si capisce come riesca a mantenere sveglio e attento il pubblico per tutta la durata dello spettacolo, con quella messinscena minimale: uno schermo, una sedia e l’attore monologante (dopo un quarto d’ora, se il testo non regge o non si ride: due palle!).
Il regista della storia teatrale rappresentata nel film ha vissuto una lunga interruzione del lavoro (guarda caso: come è accaduto ad Almodóvar) dovuta alle sofferenze di cui si diceva.
Le ha affrontate ricorrendo a uno strano modo di assumere i medicinali – pillole triturate tutte insieme, ridotte in polvere, mescolate con acqua, ingurgitate: un sorso velenoso – e al momentaneo sollievo prodotto dalla droga.

Quando si rende conto, già oltre la metà del film, della necessità di farsi aiutare e, forse, anche del pericolo di imboccare il famoso tunnel, risolve con razionalità i problemi fisici e ricomincia a fare il regista.

Così siamo arrivati alla fine, quando ci viene mostrato che abbiamo assistito a un film (ma va! non ce n’eravamo accorti): un film che ha come argomento principale il racconto dell’infanzia del famoso regista.
Al quale, vivendo di rendita sui film realizzati più di trent’anni prima, non verrebbe mai in mente di raccontare l’ultima tournée di Stanlio e Ollio, o la storia di una falsificatrice letteraria o le creature di confine tra umani e non umani, per citare i film più belli che ho visto negli ultimi tempi.

Racconta la propria infanzia, con puntate sugli anni della maturità e sulle sofferenze della vecchiaia, perché l’infanzia non basta a riempire un intero film.

La famiglia del regista era così povera che la madre dormiva per terra e vivevano in una grotta, con tutte le conseguenze, tra le quali una promiscuità pericolosa, perché c’è sempre un imbianchino analfabeta ma palestrato che decide di mostrarsi nudo a un bambino rimasto solo in casa.

Nonostante l’evento sia così scioccante da determinare lo svenimento del bambino – è stato troppo tempo al sole, spiega l’imbianchino alla madre, senza raccontarle la scena a cui lo ha fatto assistere – il regista non mostra alcun tipo di riprovazione nei confronti di un individuo che forse era solo un incosciente, forse aveva tendenze pedofile.
Addirittura, alla fine, c’è il recupero di questa figura, secondo me ambigua, attraverso un ritratto del bambino che l’imbianchino ha realizzato poco prima di farsi vedere nudo.
La madre del bambino aveva intuito qualcosa e buttato via tutto (la saggezza delle donne di una volta).

Alcune scene sono molto belle. Sono le scene in cui il regista conferma la capacità di ricreare con esattezza un paesaggio della memoria: le donne lavano i panni nel fiume, li strizzano, li stendono ad asciugare sull’erba alta, cantano.
La lingua spagnola è melodiosa.
La parte più bella del film è la descrizione del rapporto tra il regista e la madre, quando lei è anziana, malata, le resta poco da vivere e riflette, insieme a lui, sulle cose che non sono andate bene, sugli errori che ha fatto in buona fede, spinta dalla povertà.
Per esempio averlo costretto ad andare in seminario per farlo studiare, facendosi guidare da una di quelle serpi cattoliche che perseguitavano le famiglie povere con la scusa della beneficienza.
Le serpi catturavano i bambini mandandoli in seminario “per la gloria del Signore”; un prete esperto di musica si preoccupava unicamente di selezionare i più intonati per sfruttarli nel coro, sempre “per la gloria del Signore”.
Un tempo i bambini più dotati erano castrati e diventavano voci bianche; al futuro regista è andata meglio: gli facevano saltare le lezioni di storia e di geografia in favore del canto, per farlo diventare un buon solista nel coro; poi lo promuovevano, senza preoccuparsi minimamente della sua educazione.

Attraverso una serie di flashback, si passa dall’infanzia a pochi anni fa, dal bambino all’uomo maturo, avviato verso la vecchiaia: ha raggiunto il successo ma non è riuscito a restituire alla madre l’amore che ha ricevuto. Non sa come fare, troppo diverso è divenuto lo sguardo, la percezione della realtà di quella signora devota, legata a valori antichi, dalla visione dell’uomo che ha conquistato la possibilità di esprimere pienamente la propria libertà.
Lei lo rimprovera perché c’è stato un momento in cui il regista ha preferito tenerla lontana dalla sua vita.
Ora gli piace ascoltarla, aiutarla a camminare; lei gli chiede di provare la mantilla nera che dovrà indossare sul letto di morte. Il rimpianto del figlio: non essere riuscito a mantenere la promessa di farla morire nel suo letto. La vita non ci dà la possibilità di trattenere le persone che amiamo, di stare un altro poco insieme a loro, anche solo per mantenere le nostre promesse.

Questa è la parte più bella del film, sicuramente riferita a situazioni e sentimenti veri vissuti da Pedro Almodóvar.
A volte sembra che il regista voglia solo allungare il brodo, come a scuola, quando scrivevamo largo il tema per arrivare alla seconda facciata del foglio.

Per esempio quel lungo discorso, quella discettazione dettagliata sull’origine e sulla localizzazione delle malattie, con la voce fuori campo di Antonio Banderas, interprete del regista, e l’utilizzo di una sequenza interminabile di schemi e tavole anatomiche; tutto ciò per dire semplicemente: avevo continui mal di schiena ed ero depresso.
Poi c’è l’episodio romantico: indipendentemente dalle preferenze sessuali (ognuno ha le sue, la libertà e il rispetto non comporta l’obbligo di identificarsi nelle spinte sessuali degli altri), c’è una forzatura in quella parte del film, nelle lacrime, nel sentimentalismo, nel melodramma caratteristico di questo regista, che dà eccellenti risultati quando riesce a trovare il giusto equilibrio. È ciò che manca a questo film, in particolare: a questa parte.

A chi non è toccato lasciare la persona amata? Qualcuno l’ha ritrovata per caso molti anni dopo ed è rimasto deluso; smarrito, si è chiesto: «come ho potuto conservare così a lungo quel lontano ricordo? Era proprio questa la persona che vedevo nella mia immaginazione?».

Capita. Non è una regola; il regista protagonista del film, anche se invecchiato e malandato, sembra ancora attratto dall’uomo, diciamo maturo per non dire vecchio, che gli si presenta all’improvviso, dopo essersi riconosciuto nel monologo recitato in teatro.

Una cosa troppo complicata per crederci, non nel senso che Almodóvar l’ha inventata, nel senso che sullo schermo sembra inventata.
Anche questa parte dà l’impressione di essere motivata dal desiderio di arrivare alla seconda facciata del foglio.

L’infanzia è un sogno ricorrente, è girata con una luce diversa dal resto. Il resto è un mondo a parte.

Ogni tanto uno squarcio di realtà attraversa quel mondo artificiale di gente privilegiata: l’incontro con la madre, di cui si è detto, i discorsi della cameriera andina che svolge i lavori domestici e si preoccupa per la vita disordinata del regista, la lite tra due individui poco raccomandabili nella zona dello spaccio.

C’è un personaggio femminile – non ho ben capito chi rappresenti: un’amica, una segretaria, un’assistente; ma penso di essermi distratto – sempre disponibile ad aiutare il regista e a dargli buoni consigli senza essere invadente.
Mi sembra un personaggio non ben sviluppato: non si capisce bene il suo rapporto con il regista, se ha un interesse professionale, o è innamorata di lui, o semplicemente gli vuole bene.
Probabilmente è un’assistente innamorata che gli vuole bene.
Non ne sono certo perché questo è il tipo di film che non cattura interamente la mia attenzione, così mi capita spesso di perdere il filo.

Mi distrae constatare lo spreco di risorse di un regista che ha a disposizione tanti mezzi tecnici e espressivi; potrebbe fare, e ha fatto, film bellissimi, necessari.

A scuola, in coda al giudizio sul tema, la professoressa di lettere scriveva: svolgimento tirato troppo per le lunghe, saltabeccando (usava questo verbo) da un episodio all’altro, senza un reale collegamento. Un argomento è svolto in maniera egregia (diceva proprio: maniera egregia) e avrebbe meritato un approfondimento: il rapporto con tua madre. Non importa se ne hai già parlato in altri temi, è evidente che ti coinvolge e ti affligge ancora molto. Dovresti sviluppare il tema della memoria, che ti riesce bene.

A volte la professoressa aggiungeva: dovresti impegnarti di più.