13 settembre 2019 h 19.00
Cinema Arsenale Pisa – vicolo Scaramucci, 2

La mafia ieri e oggi
// The Irishman // La mafia non è più quella di una volta //

Anche i film sulla mafia non sono più quelli di una volta.

Anche Maresco non è più quello di una volta, quando, insieme a Ciprì, ci faceva ridere con i suoi personaggi da horror siculo, più pauroso dell’horror padano (Pupi Avati): un’allegra sfilata di occhi infossati, cerchiati di nero, di mostri incanottati, di zombi panciuti e mutandati.

In effetti il giovane deforme, sospettato di essere il signor diavolo, e il bambino dall’aspetto malaticcio dell’ultimo film di Pupi Avati avrebbero fatto la loro bella figura (a parte l’accento siciliano) intervistati in pose fisse, con la voce fuori campo, da Franco Maresco: «Lei afferma che il diavolo è un signore?», il bambino: «Certamente»; «È vero che lei ha personalmente divorato la sua sorellina?», il deforme: «Certamente»; «Per quale motivo?», «Perché era buona»; «Rifarebbe il suo gesto?», «Certamente».

Anche la provocazione non è più quella di una volta.

In questa fiction (mascherata da documentario) un personaggio deride una vittima della mafia, Piersanti Mattarella, vigliaccamente fingendo un’esitazione (dico e non dico).
Io penso che i morti dovrebbero essere lasciati in pace. Se sono morti ammazzati mentre svolgevano il proprio dovere, dovrebbero essere rispettati e ricordati con gratitudine.
Non è giusto utilizzare i morti per affermare il proprio cinismo; per me la satira si può fare su tutto, però io posso giudicare chi fa satira, posso giudicare le sue scelte. Se sono scelte da stronzi lo dico, come in questo caso.

Una battuta sulle vittime del terremoto nel Centro Italia non è accettabile, anche se fatta dai miei amici di Charlie Hebdo con l’intento di colpire il potere; sia chiaro, continuo ad affermare «Je suis Charlie Hebdo», ma dico anche che, in questo caso, hanno sbagliato, sono stati stronzi.

Una battuta sulle vittime del Bataclan (13 novembre 2015) o sulle vittime della Shoah mi spingerebbe a cercare la pistola (dove l’avrò messa? Ah, dimenticavo: non ho mai avuto una pistola e non so sparare).

Le vittime della mafia sono cadute l’altro ieri, ieri, stamani, poche ore fa; ci sono persone che sentono ancora lo strappo nella propria carne.

In una fugace inquadratura mi è sembrato di vedere, al funerale di Giovanni Falcone e della sua scorta, l’immagine della vedova dell’agente Vito Schifani, la donna che lanciò un grido durante la cerimonia funebre. Abbiamo ancora nelle orecchie quel grido.

Non sono sicuro che fosse proprio lei, era una breve sequenza, tratta dal funerale di Falcone, di Francesca Morvillo e degli agenti di scorta.

Quell’immagine, inserita in un contesto grottesco, per me è stata un pugno nello stomaco che avrei evitato volentieri. Sarebbe lo stesso se fosse tratta dal funerale di qualunque altra vittima della mafia.
È l’inserimento in quel contesto, creato ad arte, in quella messinscena, che colpisce e offende.

Quelli sono i nostri morti! Esigiamo rispetto.

Si contrabbanda l’idea che basta intervistare “a caso” per sapere che cosa pensa “la gente”, senza considerare l’influenza del mezzo d’indagine sull’intervistato e, dunque, sul risultato dell’intervista; ammesso che non fosse tutta una montatura (esistono interviste non montate?).

Mescolare tutto, come accade in una scena finale divisa in riquadri, a me, vecchio moralista, dà fastidio.

La tesi – enunciata attraverso un racconto, come fosse un documentario, e una sequenza di interviste, con la solita voce fuori campo (non sempre, ogni tanto il proprietario della voce entra in campo) e la scelta casuale degli intervistati – è questa: a Palermo non gliene frega a nessuno di Falcone e Borsellino, la commemorazione ufficiale delle vittime della mafia è diventata una festa paesana, tanto vale farla diventare la festa dei neomelodici napoletani, che, si sa, sono apprezzati dai mafiosi.

Si sostiene che tutti, in un modo o nell’altro, a Palermo si cacano sotto anche solo a pronunciare la parola mafia.

Questa, condensata in una formula, è la tesi del film: i palermitani sono  cacasotto (terrorizzati anche dalle ombre).

Addirittura, l’intellettuale della situazione (il finto ignorante Ciccio Mira, una specie di Checco Zalone palermitano) teorizza una vera e propria legge antropologica, culturale, enunciata quasi con orgoglio: alla domanda «chi è stato?», il vero palermitano risponde «nessuno». Come Ulisse.

Ma Ulisse non era un cacasotto, non disse «mi chiamo nessuno» per paura (aveva avuto il coraggio di accecare il ciclope), ma per furbizia, e anche per irridere il mostro.
In questo film si irridono i poveri palermitani, non il mostro.

I capi mafiosi non saranno quelli di una volta, ma certamente si divertono, come i giurati del festival di Venezia, a vedere questo film nel quale tutto sembra irrimediabilmente corrotto, tranne la mafia: deus ex machina, cielo immobile che consente agli abitanti dello Zen di divertirsi, con canzoni inoffensive, o fa sì che davanti al palco rimanga solo un ragazzino, perché così ha deciso.

E i palermitani subiscono (questo si vede nel film).
Enunciata la tesi, è facile trovare la conferma.

Interviste mirate, riprese con telecamere nascoste; vere? finte? Se uno è ripreso con una telecamera nascosta e sa o sospetta di essere ripreso, la ripresa è contemporaneamente vera e falsa: è vera perché le risposte non sono concordate, è falsa perché l’intervistato cerca di adeguarsi a ciò che l’intervistatore si aspetta.

Non c’è bisogno di preparare un testo; gli intervistati sanno come devono rispondere per entrare nel film: il chitarrista sa che non deve accordare la chitarra, Ciccio Mira sa che deve fingere di confondere cadenze con carenze.
Hanno imparato a svolgere intenzionalmente il ruolo che, in tempi passati, svolgevano senza rendersene conto: la spalla dell’intervistatore.

Anche il più sprovveduto sa che deve esporsi senza pudore, mostrare il proprio lato peggiore, accentuare l’irrazionalità e l’ignoranza, per cercare di divenire un personaggio.

Se cerchi la merda, non troverai altro che merda.

Momentanea soddisfazione per la fotografa antimafia: la conclusione del processo sulla trattativa stato – mafia, occasione per attaccare il presidente della Repubblica che, rispettando la sua funzione e la separazione tra i poteri dello stato, non ha commentato la conferma dell’impianto accusatorio.
Provocazione gratuita: si fa un’affermazione senza contraddittorio (non è un documentario), si esprime un giudizio dubbioso, si lancia un sasso.

Da dietro a Ciccio Mira, o a qualche altro personaggio, si strizza l’occhio, come a dire: io la so lunga, sono cinico, “uomo incredibilmente stanco di tutto” (Gastone).

Il film gira intorno alla stessa tesi, ripetendo il meccanismo fino alla noia, con poche varianti.

I giurati del festival di Venezia, come probabilmente i capi mafiosi, applaudono.