26 settembre 2019 h 17.30
Cinema Adriano Firenze – via Giandomenico Romagnosi, 46

Fantascienza e/o distopia
// Civil War // Dogtooth [Kynodontas] // Another End // Povere creature! [Poor things] // Amore postatomico // M3GAN // Everything Everywhere All At Once // Siccità // Nope // Penguin Highway // Lightyear: la vera storia di Buzz // E noi come stronzi rimanemmo a guardare // Dune // La terra dei figli // Tenet // Il dottor Stranamore // AD ASTRA // Brightburn // Jurassic World Il Regno distrutto // 2001: Odissea nello spazio // Tito e gli alieni // L’isola dei cani // La forma dell’acqua //

All’inizio richiama Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, a sua volta ispirato dal romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad.
Per la proprietà transitiva, dunque, Ad Astra è collegato a Cuore di tenebra, però, nel trasferimento, l’archetipo si è annacquato.
Non si può paragonare il personaggio descritto da Conrad e incarnato nel film di Coppola da Marlon Brando (un personaggio potente, misterioso, affascinante), con il vecchio pazzoide che non si è voluto arrendere al fallimento della sua missione spaziale, è rimasto solo per tanti anni dalle parti di Nettuno e fa solo pena.
Il tema potente fa partire bene il film e fa ben sperare.
Negli ultimi tempi mi sta crollando un principio su cui mi sono basato finora: un film che ha un buon incipit è buono. Purtroppo non è più così.

Uno dei nostri – nel film di Coppola il colonnello americano Kurtz (guerra del Vietnam) – un esploratore spaziale alla ricerca di altre forme di vita ai confini del Sistema Solare, si è spinto troppo oltre, forse è impazzito, è disperso, forse non è più dei nostri e ci colpisce da lontano con picchi elettrici che causano disastri e mettono in pericolo la sopravvivenza dell’umanità; bisogna contattarlo o eliminarlo.
Entra in ballo il figlio dell’esploratore scomparso, anche lui astronauta. Gli viene dato l’incarico di cercare il padre in base alle ultime informazioni disponibili.

Il giovane non vede il padre da ventinove anni, da quando è partito per l’ultima missione spaziale.
Ne conserva il ricordo struggente. Gli hanno sempre detto che il padre è morto da eroe, non gli hanno mai rivelato i dubbi sul suo comportamento e sul fatto che potrebbe essere ancora vivo.
Ovunque vada, gli altri astronauti: «Sei il figlio del famoso eroe spaziale?». Rottura di scatole. Viene voglia di andarsene ai confini del Sistema Solare.

Chi meglio di lui può svolgere la missione?
È motivato da sempre. Anche lui, sicuramente per l’influenza della figura paterna (tanto più potente quanto più il padre è assente), vuole arrivare alle stelle (AD ASTRA) affrontando tutte le difficoltà e le fatiche necessarie (PER ASPERA): fatiche fisiche e psicologiche che questo lavoro comporta: prima di tutte l’impossibilità di prendersi cura di qualcuno e la conseguente solitudine.

Chi meglio di lui, che ha un battito cardiaco mai superiore a 80, anche nelle situazioni di maggiore pericolo?

Ci sarebbe un vecchio compagno del padre, ma Donald Sutherland è troppo vecchio e disposto solo a fare un cameo abbastanza inutile: si limita a sgranare gli occhi e si ammala proprio mentre sta per imbarcarsi nella stessa missione, insieme al giovane.

Evidentemente non è stato sottoposto a controlli medici accurati, principalmente sul battito cardiaco, o i controlli non hanno funzionato. Quelli dell’ente spaziale avranno pensato: mandiamolo, che c’importa! Ha un mancamento dopo una corsettina in jeep e un po’ di esplosioni sulla luna ed esce di scena (sicuramente Donald Sutherland aveva altro da fare).

Tutto si svolge come si può prevedere dopo i primi cinque minuti (un buon incipit, ma lo svolgimento è prevedibile).

Per non farci annoiare, o farci annoiare un po’ meno, ci abboffano di combattimenti con tricchitracchi e castagnole; per dirlo un po’ meglio: ci riempiono di inseguimenti e luminarie, ce ne danno a iosa, tanto da gonfiarci come un palloncino che sta per scoppiare. In napoletano basta la parola abboffare (italianizzata; in realtà l’infinito è “abbuffà”; “abbóffənə” è l’indicativo presente).

Sulla luna si combatte con le jeep lunari (bisogna correre) contro pirati non meglio identificati, sostenuti da stati non meglio identificati.

In questo film si dà per certo che nel futuro, malgrado i progressi tecnologici, le cose non cambieranno molto rispetto a ora; se fosse vero, verrebbe da pensare che l’uomo non merita tutto questo impegno per salvarlo dall’estinzione.

Su Marte, nella base spaziale protetta dai picchi di elettricità, ad accogliere gli astronauti sopravvissuti ai combattimenti c’è una ragazza un po’ misteriosa che si presenta come capo, direttrice, responsabile della base, ma non comanda niente.
Scopriamo che la poveretta è nata in quel posto («poraccia!», direbbero a Roma) e da lì non si è mai mossa; sulla Terra è stata solo una volta da piccola (forse in gita scolastica); «meschina!» (o, forse, «mischina!»), direbbero a Palermo, allungando la seconda i.

Quelli che comandano nella base hanno la faccia e l’atteggiamento da grande fratello, decidono che il nostro eroe è troppo coinvolto emotivamente nel progetto e vogliono impedirgli di partire. Ma, nonostante la faccia da grande fratello, si fanno imbrogliare facilmente: non avevano previsto che nell’astronave in partenza («meno cinque, quattro, tre …») si può entrare all’ultimo momento immergendosi in un lago sotterraneo da cui si sbuca sulla piattaforma di lancio e si può risalire abbastanza agevolmente (data la situazione) ai portelloni dell’astronave.

Per entrare basta spingere: i portelloni non sono protetti da alcun sistema di sicurezza, nessuna serratura, neanche un catenaccino di quelli che si trovano nei negozi di ferramenta.
In queste astronavi si entra con estrema facilità, basta spingere il portellone; probabilmente non si sono mai verificati furti spaziali.

Comunque un punto è assodato: la macchina che fa le analisi psicologiche con domande stucchevoli ripetute («Come stai? Come ti senti in questo momento?») non serve a niente. Una spesa inutile.

Quando l’astronave – superata la confusione iniziale, rimasto il nostro eroe solo con i suoi pensieri, dopo che il resto dell’equipaggio si è eliminato da solo – si avvia a compiere il lungo viaggio verso Nettuno, il film vorrebbe assomigliare a 2001: Odissea nello spazio.
Vorrebbe! ma è tutta un’altra musica.

Il viaggio dura 79 giorni, durante i quali, non avendo altro da fare (il computer di bordo non si ribella e non si vedono attrezzi per fare ginnastica all’interno dell’astronave), il pilota, seduto al posto di comando, ha modo di riflettere sulla propria vita: il passato, il matrimonio fallito per colpa sua, sempre in viaggio, sempre freddo, quasi anaffettivo, il battito cardiaco sempre basso. Ha modo, insomma, in quel lungo viaggio da solo nello spazio, di riflettere sulle cose a cui pensiamo tutti quando siamo impegnati in viaggi molto più brevi, su veicoli più banali.

Per fortuna, dal momento che si era detto che era dispersa, raggiunge l’astronave del padre e, come niente fosse, ci entra dentro spingendo il portellone.

Scansati un po’ di cadaveri fluttuanti – non si capisce se incartapecoriti o, in assenza di aria, rimasti intatti – trova il padre.
Naturalmente è invecchiato, ha la barba incolta (non ha frequentato molta gente negli ultimi anni, solo cadaveri fluttuanti), è trasandato (la stessa tuta per 29 anni) ed è affetto solo da un po’ di cataratta: forse per questo il suo sguardo sembra allucinato.

Che cosa ha fatto lassù (o laggiù, dato che nello spazio non c’è sopra e sotto), che cosa ha fatto là in fondo (in fondo rispetto a che cosa?) da solo per tanti anni, come un eremita, oltre a guardare vecchi film in bianco e nero?

Ha continuato gli esperimenti alla ricerca della vita. Da solo! Forse si è limitato a scrutare nello spazio profondo, nonostante la cataratta, sperando che un alieno venisse a trovarlo e a fargli compagnia.

Come ha fatto a sopravvivere? Come si è alimentato? Mistero.

A questo punto mi ero abbastanza annoiato e non vedevo l’ora che finisse.

Me ne vado? Non me ne vado. Aspetto i titoli di coda. C’è tutto il tempo per raggiungere tranquillamente la stazione Rifredi seguendo i binari della linea del tram fino a piazza Dalmazia; potrei prendere il tram, ma preferisco andare a piedi: l’aria della sera, in questo fine settembre, è piacevole.

Finito il film, dirigendomi verso la stazione e osservando i grandi edifici con i balconi tutti uguali su cui qualche anziano si gode il fresco, rifletto, un po’, su ciò che ho visto al cinema.

Brad Pitt è, secondo me, un bravo attore (se ben diretto, per esempio da Quentin Tarantino); la faccia di Donald Sutherland è collegata, nella memoria, alle grandi emozioni che ci ha regalato in una lunga carriera; è un peccato sprecarla in una particina che non lascia il segno. Grande dispendio di mezzi, di tecnologia, di effetti speciali digitali che non emozionano (sappiamo che li fanno battendo i tasti e muovendo il mouse).
Non si può fare un film di fantascienza parlando a caso di materia e antimateria, di picchi elettrici partiti da una astronave parcheggiata nei paraggi di Nettuno, di una bomba nucleare in grado di distruggere una stazione spaziale e, nel contempo, di fornire a un razzo vettore l’energia sufficiente (una specie di calcione in culo al vettore) per compiere tutto il percorso di ritorno fino alla Terra.

Penso che la fantascienza richieda rigore scientifico per essere interessante, dal momento che si basa su teorie non dimostrate, su ipotesi che non hanno conferma sperimentale e vanno ancorate alle conoscenze attuali per renderle credibili o, almeno, godibili.

La fantascienza dovrebbe fare solo un passo avanti rispetto a ciò che conosciamo, non più di un passo, e trarne con coerenza tutte le conseguenze.

Però devo ammettere che una cosa utile ho imparato da questo film, un avvertimento che può servire quando parteciperò a future imprese spaziali: mai portare scimmie nello spazio per esperimenti di biomedica; possono diventare molto nervose.