28 novembre 2019 h 18.30
Cinema Teatro Odeon Firenze – piazza Strozzi

La Storia siamo noi
// La zona d’interesse (la penetrazione del nazismo nelle coscienze) // Napoleon (1769 – 1821) // Oppenheimer (l’inizio dell’era nucleare) // Casablanca (amore e guerra) // Rapito (il caso Mortara) // “Buongiorno, notte” e “Esterno notte: prima parte” (stesso commento; il caso Moro) // “Esterno notte: seconda parte” (il caso Moro) // Belfast (il conflitto nordirlandese) // L’ombra del giorno (fascismo e persecuzione degli ebrei) // Illusioni perdute (la società francese negli anni della Restaurazione) // Est Dittatura Last Minute (i paesi dell’Est negli anni dell’Unione Sovietica) // 1917 (la prima guerra mondiale) // Jojo Rabbit (nazismo) // Herzog incontra Gorbaciov (la fine dell’Unione Sovietica) // Hammamet (la fine di Craxi) // J’accuse (il caso Dreyfus) // La Favorita (i guai della Gran Bretagna al tempo della regina Anna, 1708) // Cold War (la guerra fredda) //

Roman Polanski non mi ha deluso.
Mi avrebbe deluso se avesse fatto apparire, nei titoli di testa, la scritta «Questo film racconta una storia vera», o, ancora più presuntuosa, «La vicenda raccontata in questo film è la pura verità» (« … la fottuta verità», diceva Spike Lee in Blakkklansman).

La Pietà di Michelangelo è una scultura che tutti conosciamo (in realtà sono quattro sculture); ci colpisce, ci mette a tappeto per la potenza espressiva dei personaggi. Si potrebbe vedere come un film girato da un grande regista cinematografico che estraeva dal marmo i fotogrammi (cinema scolpito).
Anche se Michelangelo avesse lavorato tenendo davanti il Cristo morto, abbandonato sulle ginocchia della madre giovanissima (mi riferisco alla Pietà Vaticana), la statua sarebbe la Pietà dal punto di vista di Michelangelo.

Il corpo della madre è più grande del corpo del figlio, un giovane uomo che nel film sembra tornato bambino.
Anche lei sembra una bambina: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / … … …».

Un’altra storia è raccontata nella Pietà conservata a Milano, altre nelle due conservate a Firenze.
Se le mettiamo in fila, il film cambia, la trama si complica, con l’intervento di altri personaggi, alcuni approfonditi, altri appena accennati. L’artista ha costruito diverse realtà.

Polanski ha scritto: «Tous les personnages (Tutti i personaggi) et événements (e gli avvenimenti) évoqués dans ce film (evocati in questo film) sont réels (sono reali)».

Ha scritto reali, non veri: i personaggi e gli avvenimenti sono reali.
La bambina che porta in braccio il figlio trentatreenne è reale, non vera.
Se l’artista avesse cercato di renderla vera, anche se avesse avuto la Madonna e Gesù come modelli, dopo un po’ ci annoieremmo a guardare la statua, esattamente come ci annoiano i quadri dei madonnari, giustamente destinati a sparire rapidamente. Ci annoiano se, come accade spesso, l’artista si è solo preoccupato di rifare la figurina, se ha cercato di renderla una copia vera, ingrandita. Pensiamo «quant’è bravo!», che suona un po’ come «quanto tempo ha da perdere!», e andiamo oltre.
Se l’artista avesse messo se stesso in quell’immagine, la propria visione del mondo, il proprio punto di vista, non riusciremmo ad andare oltre, non ci rassegneremmo a vedere calpestare e scomparire quell’immagine, o piangeremmo, come pianse lo scultore Manzù quando un folle prese a martellate la Pietà di Michelangelo.

La nota di Polanski è l’unica affermazione che un artista onesto, cosciente dello strumento che usa per esprimersi, può fare all’inizio di un racconto che prende spunto da una storia realmente accaduta.
È come se dicesse: vi garantisco la mia onestà intellettuale; mi sono riferito a documenti affidabili che potete consultare, se volete (Robert Harris, autore delle ricerche, ha scritto il libro L’ufficiale e la spia e ha partecipato alla sceneggiatura); nel film parlo di persone realmente esistite, racconto fatti che realmente hanno impegnato quelle persone; ho ricostruito l’ambiente nel modo più accurato possibile; ho scelto gli attori principali tenendo presente la loro somiglianza, anche fisica, con i protagonisti della vicenda.
Questo solo vi garantisco (sto sempre enucleando la breve nota posta all’inizio del film).

Corollario di questa dichiarazione (ancora, arbitrariamente, a nome di Roman Polanski): ho cercato di essere onesto, ma il punto di vista è mio, come il punto di vista della Pietà è di Michelangelo.
La Madonna forse non era così giovane, ma l’artista la vedeva così, dunque era così. Addirittura, nella Pietà Bandini (Firenze), Michelangelo ha dato il proprio volto a Nicodemo, che aiuta la Madonna a reggere il corpo morto del Cristo. Se non vi piace, fatevi la vostra Pietà.

Mettete pure i baffi e il pizzo alla Gioconda, a imitazione di Marcel Duchamp, e una scritta dissacrante (“Elle a chaud au cul”, “Ha caldo al culo”), ma prima accertatevi di essere artisti, di essere capaci di vedere, ma, soprattutto, di costruire la realtà. Altrimenti, come diceva Enzo Turco a Totò in Miseria e Nobiltà, meglio desistere («Vedi queste due dita? Premi la mozzarella, così. Se esce il latte, prendila, se non esce: desisti»).

Per dare un segno chiaro, inequivocabile – mi rivolgo agli spettatori, quindi anche a me stesso, sempre a nome di Polanski, che non può incazzarsi perché, fortunatamente, non lo sa – mi sono introdotto nel film, in una breve scena, con la mia fisicità di vecchio intellettuale ebreo francese di origine polacca che vi ha donato capolavori della cinematografia (alla vita privata devono pensare i giudici, i vicini di casa, i familiari, gli amici, facendo molta attenzione prima di condannare).

Non faccio il pubblico ministero; non sono giudice, cancelliere, neanche usciere di tribunale; non emetto sentenze e cerco di tenere separati i giudizi morali (nei quali sono cauto) e i giudizi sull’arte (nei quali mi espongo più facilmente).

Giudicare gli altri spetta a un apparato che chiamiamo Giustizia, un apparato complesso, guidato da uomini in carne e ossa (oltre a grassi, nervi, pregiudizi, interessi e il sessanta per cento di acqua); di conseguenza questo apparato ogni tanto commette errori grossolani, non solo li ha commessi ai tempi e nel paese di Alfred Dreyfus.

Non caviamocela facilmente spostando il problema nella storia, nella terza Repubblica francese, fra quegli uomini muniti di baffi attorcigliati sulla punta, che provavano l’emozione di scoprire le fattezze intime di una donna solo quando si liberava, a fatica, credo, della gonna lunga e gonfia con cui andava in giro: una specie di palandrana avvolgente che lasciava un po’ più scoperti e raggiungibili tramite bottoni i seni morbidi, forse per consentire l’allattamento, ma sotto impediva qualunque accesso (chissà com’era laborioso, per le donne, anche solo fare pipì!).

Il problema è attuale (non quello appena accennato, il problema della giustizia giusta) e riguarda anche noi che non abbiamo nulla da scoprire sul corpo femminile (è a disposizione dello sguardo di chiunque, in ogni momento) e non tormentiamo i militari costringendoli a battere i tacchi in continuazione e ad accostare la mano al cappello con uno scatto nervoso.

Anche oggi in Italia, in Francia, in qualunque paese occidentale, in mala fede e, addirittura, in buona fede (riferita agli uomini che la governano), la Giustizia a volte fallisce.
In alcuni casi fallisce miseramente.
Però dobbiamo credere alle sentenze (non possiamo fare altrimenti!) se non vogliamo far crollare il castello che chiamiamo democrazia; dobbiamo, continuamente, cercare di migliorare l’apparato, correggerlo, preparare le persone che lo fanno funzionare, lubrificare gli ingranaggi (con le riforme, non con le mazzette, che, invece, li fanno inceppare).
Non c’è altra possibilità.

Enzo Tortora, prima che un Tribunale emettesse una sentenza sbagliata, che fu successivamente corretta (fondamentale questa possibilità), rivolgendosi ai giudici dichiarò: «Io sono innocente! Spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi!».
I due pubblici ministeri che l’avevano condotto fino a quel punto, con metodi discutibili, non erano innocenti, anche se, che io sappia, ciascuno è rimasto al suo posto, impunito per le sofferenze inflitte a Enzo Tortora.

Ogni tanto si alza la voce di chi vorrebbe seppellire in uno scantinato, o forse addirittura distruggere, i quadri di Paul Gauguin, perché pare che il grande pittore abbia avuto comportamenti inaccettabili quando soggiornava nelle isole della Polinesia.
È un’idea da talebani (purtroppo ce ne sono anche nel nostro mondo), eppure viene fuori ogni volta che si fa una mostra importante dei quadri di Gauguin.
Per non parlare delle mostre dedicate alle opere di Balthus: polemiche a non finire.

Qualcuno trova obiezioni alle rappresentazioni teatrali del Mercante di Venezia, per la pretesa atroce del personaggio principale, il mercante ebreo.
Prima o poi qualche imbecille chiederà un Otello biondo e poco abbronzato (il biondo di Venezia), per non ripetere lo stereotipo del nero: grande, grosso, guerriero, stupido e feroce.

Se si dà ragione agli indignati in servizio permanente, se si fa prevalere chi vuole sovrapporre un facile giudizio morale al giudizio estetico, si finirà col mettere di nuovo le braghe ai personaggi del Giudizio Universale, o, siccome oggi il nudo non scandalizza più nessuno, si applicherà la censura su qualsiasi opera d’arte che possa offendere gli aderenti a un credo religioso, principalmente gli adoratori di Allah, o di Geova, o di Gesù Cristo.

Continuando così, si dovrà stare attenti agli animalisti, ai vegani, agli amici dei microbi (nemici della vaccinazione, che, si sa, causa terribili stragi di virus), ai terrapiattisti, che potrebbero essere offesi da una rappresentazione della Divina Commedia (Dante, nel 1300, con le informazioni di cui disponeva, era molto più avanti di loro).

A proposito: recentemente ho assistito a una bella versione della canzone napoletana Caravan Petrol in televisione.
Ho notato che, differentemente dal complesso di Renato Carosone, che nel ritornello cantava «… Allah, Allah, Allah … ma chi t’a fatt’fa …», in questa versione (do un indizio: RaiPlay), nel ritornello si ripeteva «… ma chi t’a fatt’fa, ma chi t’a fatt’fa …».
Non vorrei che fosse una forma di autocensura attuata per non far incazzare i fanatici islamici. Loro si vietano di nominare Allah invano, noi no, lo nominiamo quando ci va bene per la rima.

Penso che i fanatici religiosi, di qualunque religione, non debbano influenzare il nostro modo di divertirci, né direttamente, con le minacce, né indirettamente, con l’autocensura.
Loro preferiscono rifugiarsi nella fede, abolire il dubbio. Facciano pure. Noi no.
Se i fanatici religiosi preferiscono vivere come se fossero già morti, in attesa delle vergini che incontreranno all’altro mondo, o in attesa di una resurrezione in carne e ossa (oltre a grassi, nervi, pensieri, desideri, ricordi e il sessanta per cento di acqua), noi abbiamo solo dubbi, ci divertiamo come ci pare e cantiamo allegramente: «… Allah, Allah, Allah … ma chi t’a fatt’fa …».

Per quale motivo (domanda retorica) è sparito dalla programmazione televisiva su tutte le reti, in particolare su quelle della Rai, L’ultima tentazione di Cristo, capolavoro di Martin Scorsese?

Lasciamo ai giudici il compito di emettere sentenze, sperando, come disse Tortora, che siano innocenti.

Il film di Roman Polanski è una ricostruzione perfetta e rigorosa di un’epoca.
Non concede nulla alla retorica.
Il lieutenant-colonel (tenente colonnello) Georges Picquart, il nostro eroe, ne esce come un razzista sprezzante, che trattava con freddezza un suo allievo solo perché ebreo.
Fu la sua concezione dell’onestà e il suo desiderio di salvare l’esercito da un clamoroso errore giudiziario a portarlo, gradualmente, a causa del comportamento rozzo dei suoi superiori, che non erano innocenti, a impegnare tutto se stesso per la liberazione del capitano Dreyfus.

Molto efficace la costruzione graduale dei dubbi che minano la fiducia, inizialmente totale, del personaggio nei confronti degli apparati dello stato e delle gerarchie militari.

Dopo la conclusione della vicenda, quando molte caselle, non tutte, erano tornate a posto (grazie soprattutto a Émile Zola), anche l’onestà di Picquart si piegò davanti alla politica: il povero Dreyfus, nonostante fosse stato riconosciuto innocente e reintegrato nell’esercito, dovette rinunciare all’anzianità di servizio relativa al periodo che aveva speso, ingiustamente, nell’isola del Diavolo. E Picquart, che non aveva mai mostrato amicizia nei suoi confronti, non batté ciglio.
Però lo stesso Dreyfus aveva accettato la grazia, che comportava un’ammissione fasulla di colpevolezza.

Certamente è comodo accusare di vigliaccheria la povera vittima di un ingranaggio perverso senza avere passato nemmeno un giorno nell’isola del Diavolo.
Se capiterà anche a me di essere “piombato” sul letto di contenzione, in compagnia di guardie sadiche, e rifiuterò la grazia, mi permetterò di associarmi all’accusa, forse.
Ma non credo che la rifiuterò, anche se mi avessero accusato di avere preparato e sganciato personalmente la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. Descriverei tutti i particolari e, se me lo chiedessero, spiegherei di non averne sganciato una terza su Paperopoli per mancanza di tempo. Purché mi dessero la grazia.

Picquart, secondo il libro da cui è tratto questo film, propose a Dreyfus di rifiutare e si meravigliò della sua scelta, chiacchierando con la sua dolce compagna. Troppo comodo!
Alla fine Alfred Dreyfus fu assolto.

La conclusione della vicenda e del film è amara, nonostante i perversi generali francesi dell’epoca facciano una brutta fine (e questo ci dà grande soddisfazione).

Quando la spada di Picquart penetra nel braccio del falsificatore di documenti, il lurido maggiore Henry (super, come dicono i francesi, l’interpretazione di Grégory Gadebois), ci sentiamo parte di quella spada, del braccio che l’ha manovrata, perché l’attore e il regista sono riusciti a farci attraversare lo schermo, a coinvolgerci emotivamente, nonostante il rigore della ricostruzione che non concede nulla ai facili sentimenti: alle sofferenze di Dreyfus si accenna, ma il film è incentrato sulla figura di Picquart, che, pur rischiando, se la cava sempre e riesce anche a passare indenne attraverso una storia di corna. 

Questo è il merito principale di J’accuse (titolo originale, molto più efficace del titolo italiano, più adatto a un libro che a un film): indurci a riflettere con una ricostruzione rigorosa, a tratti, volutamente, fredda, schematica; riuscire a creare la sospensione, l’attesa, in una storia che tutti, grosso modo, sappiamo come è andata a finire.

Costruire un film di spionaggio su una vicenda storica che non ha più misteri – farci scrutare con interesse quei pezzi di carta incollati, come se, insieme al personaggio, potessimo scoprire qualcosa, confrontando le grafie – la chiesa in cui la madame che collabora con il controspionaggio deposita, sotto una panca, il contenuto del cestino dei rifiuti – lo sguardo di Jean Dujardin, che, in quel momento, è il nostro investigatore e sta per diventare il nostro eroe – lo spione con la bombetta (sembra di vederlo in un quadro impressionista, come pure il generale in campagna: un quadro di Monet) – le stanze in cui si utilizzano i recenti sviluppi della fotografia per inchiodare i traditori – i locali nei quali gli ufficiali e i borghesi si divertono con le sciantose (ma non siamo a Napoli, erano chanteuses) e con le puttane. Tutto questo è arte cinematografica.

Arte cinematografica della quale Roman Polanski dimostra ancora una volta di essere uno dei principali esponenti attuali.

Complimenti a Luca Barbareschi, che ha partecipato alla produzione ed è presente con un cameo. Fa piacere vedere un attore italiano in un film che ha tanti attori della Comédie-Française, in un capolavoro (è un periodo che spendo troppo spesso questa parola; si vede che scelgo con accuratezza i film; per compensare andrò a vedere un film di Natale, se ce la faccio!).

Piazza Strozzi – 28 novembre 2019