4 gennaio 2020 h 17.20
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto

Umorismo (fa bene ridere)
// Romeo è Giulietta // La Primavera della mia vita // Il discorso perfetto // Una famiglia mostruosa // Mandibules // Odio l’estate // Jojo Rabbit // Tolo Tolo // Il colpo del cane // Stan & Ollie // Moschettieri del re // Il Grinch // Achille Tarallo // L’incredibile viaggio del fachiro // Favola // Una festa esagerata // Metti la nonna nel freezer // Come un gatto in tangenziale // The Disaster Artist // C’est la vie: prendila come viene //

Avevo cercato di vedere questo film il 2 gennaio.
Ma – come si dice: «troppa grazia Sant’Antonio» – è stato impossibile, la sala era piena, avrei dovuto prenotare.
Purtroppo prenotare è uno dei verbi che non riesco e non sono riuscito mai a coniugare: preferisco il caso.
Ci ho provato di nuovo il sabato prima dell’Epifania e ho trovato un posticino laterale.

Troppa grazia Sant’Antonio? Neanche per sogno! La grazia non è mai troppa se la gente decide di staccarsi per un po’ dalla routine televisiva per andare al cinema; se poi una folla si mette disciplinatamente in fila per entrare e, quando esce, un’altra folla aspetta lo sgombero della sala, è cosa bella, un buon inizio d’anno.
La straordinaria accoglienza ricevuta dal film di Checco Zalone fa riflettere su ciò che siamo abituati a considerare sintomo della crisi del cinema: le sale vuote o semivuote.

Cari registi, seri e più o meno impegnati, cari autori importanti del cinema italiano, volete salvare le sale cinematografiche che vanno scomparendo e non lasciare tutto in mano ai colossi americani e a quell’azienda che sta comprando tutto, producendo tutto e ci preferisce chiusi in casa davanti ai televisori?

Sì? Volete?

Non c’è bisogno di appelli, petizioni da sottoscrivere, richieste di aiuto dallo stato, dai cittadini, dalle istituzioni.

Voi, operatori del settore, avete in mano un’arma molto più efficace; è uno dei rari casi in cui la soluzione di un problema complesso è semplice.

Se volete vedere le file davanti alle biglietterie, i cinema pieni di gente, prendete esempio da Luca Medici, che non è Fellini, non è Ingmar Bergman, però è capace di fare film che attirano gli spettatori, utilizzando una maschera (Checco Zalone) esattamente come facevano i registi (Carlo Ludovico Bragaglia, Camillo Mastrocinque, Mario Mattoli, Sergio Corbucci, ecc) che utilizzavano la maschera Totò e riempivano le sale.

Ho letto che Tolo Tolo non è piaciuto a Ignazio La Russa.
A dire il vero, dell’opinione dell’onorevole La Russa non m’importa nulla, perché lo considero quanto di peggio ci sia nella politica italiana attuale (niente di personale, mi riferisco alle idee espresse e alla posizione politica che rappresenta). Lo scrivo solo per segnalare un fatto, che avrebbe potuto costringermi ad aggiungere: non condivido alcuna opinione di La Russa, tranne il giudizio sull’ultimo film di Zalone.
Non è così, nel senso che non condivido alcuna opinione. Punto.

Tolo Tolo, secondo me, è un bel film, molto ben costruito, divertente.
Luca Medici, insieme a Paolo Virzì, cosceneggiatore, ha separato l’autore e regista dal personaggio.
Il personaggio, ancora più imbambolato e casinista del solito, perso nei suoi sogni, deciso a non tenere conto della realtà, indifferente all’odio, anche dei suoi stretti familiari, ai quali gioca brutti scherzi coinvolgendoli nelle sue imprese imprenditoriali fallimentari (non vuole il reddito di cittadinanza, vuole creare lavoro), continua a fare battute politicamente scorrette ma irresistibili.
Si muove come un provinciale ignorante, come il cozzalone che conosciamo (da cui il nome).
Dove si muove in questo modo bizzarro?

Nel villaggio turistico in Kenia, dove gli italiani straricchi sfruttano le bellezze del posto, le signore giocano con i toy boys (grande cameo di una divertita e autoironica Barbara Bouchet).

Nei poveri villaggi di capanne, dove ritrova il maschilismo (si fa festa se nasce un maschio).

Sotto le bombe dell’Isis, fra i nostri militari impauriti, impegnati in una missione di pace (italiani brava gente, anche se ogni tanto esaltati dal ricordo di una malattia, il fascismo, da cui li libera solo l’amore, anzi, per essere esatti, la passione per la gnocca).

Sul camion sovraccarico per attraversare il deserto.

Nell’imbarcazione sovraccarica per attraversare il mare.

Nel mare in burrasca, di notte, dove i naufraghi cantano sotto il cielo coperto di nuvole nere, fra le quali s’intravede a malapena la luce di una stella.

Dovunque Checco si muove con l’incoscienza che lo portava, in Cado dalle nuvole, a cantare canzoni popolari del sud in un raduno leghista e a pisciare nell’ampolla di Bossi.
L’autore ha scritto belle canzoni e ha segnato i momenti chiave del film con belle canzoni del passato, utilizzate in contrasto con le immagini.
Geniale accompagnare la famosa Italia di Mino Reitano (…, di terra bella uguale non ce n’è …) con il David nero, i gondolieri neri, la nazionale di calcio formata interamente da giocatori di colore (li voglio vedere, quando una squadra di club sarà composta in questo modo, gli ultras di quella squadra lanciare gli stupidi cori da stadio razzisti contro Balotelli), infine il Papa nero con le treccine, affacciato sul balcone di piazza San Pietro, i cardinali intorno che scuotono la testa con disapprovazione (più o meno, tranne per il colore della pelle e per le treccine, ciò che realmente è accaduto).

Lo sceneggiatore, insieme a Virzì, ha organizzato una trama sconclusionata come si deve, non scontata, con svolte che sorprendono; i personaggi hanno comportamenti assurdi ma coerenti.
Il regista ha realizzato un musical, dunque, sostanzialmente, una favola in musica, affrontando temi pesanti con leggerezza e allegria.

Si può fare? Ci sta, se le cose sono fatte bene.

Dal deserto sbuca il giornalista impegnato, ricchissimo, sponsorizzato, che gira con la sua macchina fotografica per testimoniare e, all’occorrenza, conquistare il cuore di una bella profuga (non solo il cuore); un personaggio su cui raramente qualcuno aveva osato fare dell’ironia (ironia, non i beceri attacchi dei sovranisti).
Ironia riassunta da quel gesto tipicamente meridionale (lo faceva spesso Totò) – una spinta data sulla parte alta del braccio, con il volto sorridente che attenua l’aggressività del gesto ed evidenzia la presa in giro – quando il giornalista dice: «sono ricchissimo, ma ho visto tanta povertà».

Anche Luca Medici è ricchissimo, però non dice: «ho visto tanta povertà», e non lancia messaggi, cerca solo di farci divertire e ci riesce. Si muove su un livello di umanità basico (abbraccia spesso il bambino), e osserva un mondo in cui non ci sono ruoli fissi per i buoni e per i cattivi, tranne uno: il politicante arrivista e carrierista, non a caso il più ottuso, l’unico personaggio preso interamente dalla realtà (basta notare come, in sostanza, assomiglia a …, e anche a …, lasciamo perdere.)

Gli altri personaggi sono, ovviamente, tutti di fantasia, compreso il vecchietto interpretato dal bravo Nicola di Bari, che desidera tanto la estinzione del nipote, possibilmente carbonizzato.

Forse dare al giornalista la nazionalità francese serve a non prendere di mira in modo troppo diretto i nostri martiri dell’informazione, sempre molto compresi del proprio ruolo.

Si ride in modo meno scoppiettante, rispetto agli altri film. Ma, come nei buoni musical, c’è un’aria sorridente che coinvolge gli spettatori, un’allegria che fa bene alla salute fisica e mentale e non tradisce l’attesa di chi voleva solo divertirsi e non è entrato in sala per incontrare un comico televisivo, sottoposto alle rigide regole dell’audience – a volte fanno pena questi battutisti in serie, sembrano operai sottoposti alla catena di montaggio di una volta, sembrano fattorini dei magazzini di Amazon, sembrano dipendenti dei call center, sembrano rider in bicicletta che corrono da una parte all’altra della città – terrorizzato dal pubblico e dagli sponsor, costretto a sparare battute in continuazione, come era Checco Zalone fino a qualche anno fa.
Luca Medici si è liberato: va in televisione quando gli pare (divertentissimo l’intervento su RaiPlay, da Fiorello), solo per promuovere il suo film; manda in televisione un video con una canzoncina in stile Celentano, un video che non c’entra nulla con il film ed è destinato a rivelare gli stronzi (come il contatore Geiger rivela le sostanze radioattive, fra le quali lo stronzio), e gli stronzi ci sono cascati in pieno.
Fa il film che gli piace, nel quale realizza completamente il suo sogno di autore (in Cado dalle nuvole andava a Milano con la sua chitarra proprio per questo, per vivere come cantante e autore di canzoni).

La più bella canzone accompagna il cartone animato finale.

Testo geniale: non ha la pretesa di lanciare un messaggio (chi si aspetterebbe un messaggio da Supercalifragilisticexpialidocious?) ma fa riflettere (chi vuole): che colpa hanno i bambini se una cicogna strabica e un po’ mignotta li ha fatti scendere in Africa, anziché in Olanda, in Lichtenstein o, al limite, in Italia?

È una colpa essere nati in Africa?

Nessun happy end, anche se, apparentemente, un lieto fine c’è, con l’amata in abito da sposa; ma subito viene svelato il trucco: siamo in un film e il politicante di turno – arrivista e carrierista come quelli che ci tocca vedere in televisione, purtroppo non nei film ma nei telegiornali – pretende che le comparse tornino tutte in Africa, perché superano i chili di emigrante che si possono accettare e far diventare immigrato, quello che mal sopportiamo quando ci chiede gli spiccioli e temiamo che voglia mettersi al posto nostro anche nel letto con nostra moglie.

Così il cerchio, sullo schermo, si chiude. Nella vita, naturalmente, è tutta un’altra storia.

«Fa’ la buona risorsa, mi raccomando!», dice Checco al bambino quando lo saluta, e accetta i soldi dal padre solo dopo avere saputo che non paga i contributi. Perché chi non lavora in nero già contribuisce a mantenere buona parte degli italiani, i pensionati, che aumenteranno sempre di più in percentuale, dato il calo delle nascite.