31 gennaio 2020 h 18.30
Cinema Teatro Odeon Firenze – piazza degli Strozzi

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Amicizia (scoperta, coltivata o tradita)
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I giovani
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Ho visto le trincee della prima guerra mondiale, dove combatté e probabilmente morì Pietro Pirozzi, il fratello di mia nonna di cui, da piccolo, sentivo parlare spesso in famiglia, soprattutto dall’unica sorella sopravvissuta, la mia famosa prozia Tanina (contrazione di Gaetanina, famosa in famiglia).

Non sono le stesse trincee.
Tanto per cominciare, non sono vere ma ricostruite. Sto parlando, ovviamente, della scenografia del film 1917 di Sam Mendes.
In secondo luogo, si tratta delle trincee scavate dall’esercito di sua maestà Giorgio V sul fronte occidentale, dove i britannici e i francesi si scontrarono con i tedeschi.
L’esercito italiano combatté, dalla stessa parte degli inglesi e dei francesi, prevalentemente lungo una linea curva che va dal confine con la Svizzera, a ovest, fino al mare Adriatico (golfo di Venezia), a est.
Però credo che le trincee si assomigliassero tutte.

Certamente si assomigliavano le buche prodotte dai colpi di cannone, che si riempivano d’acqua piovana (sulle Dolomiti neve e ghiaccio) e di cadaveri in decomposizione.
Cadaveri di uomini e di cavalli. Sul fronte italiano c’erano anche i muli, utilizzati sulle strade impervie dei monti.

Le divise erano diverse. Molto diverse le divise dei colonnelli, dei generali, che amavano infiocchettarsi, distinguersi, coprirsi il petto di medaglie che si attribuivano da soli. Un generale rimase mezza giornata davanti allo specchio, mentre i suoi uomini combattevano e morivano; il generale non riusciva a staccarsi dalla sua immagine riflessa e a smettere di ripetere: «Quanto sei bello!» (chi me l’ha raccontato? Nessuno. L’ho pensato io).

Pur essendo diverse, tra i diversi eserciti, le divise dei soldati si assomigliavano; la moda autunno inverno, e anche primavera estate, dettava per le divise dei soldati di tutti i paesi un’unica regola: risparmiare, sulla stoffa, sulle scarpe, su tutto.

Gli scarponi inglesi erano di buona qualità, dotati di fasce mollettiere che impedivano l’entrata dell’acqua. Spesso i fanti si ritrovavano a camminare nel fango.

Sugli scarponi e sugli stivali degli italiani c’è la testimonianza di Carlo Emilio Gadda, che combatté nella Grande Guerra e fu fatto prigioniero dai tedeschi.
Il 20 settembre 1915, a Edolo, dove era arrivato come allievo ufficiale degli alpini, prima di essere inviato sul Carso, nel Giornale di guerra e di prigionia, scrive:

«… … … … … …
I nostri uomini sono calzati in modo da far pietà: scarpe di cuoio scadente e troppo fresco per l’uso, cucite con un filo leggero da abiti anzi che con spago, a macchina anzi che a mano. Dopo due o tre giorni di uso si aprono, si spaccano, si scuciono, i fogli delle suole si distaccano nell’umidità l’uno dall’altro. Un mese di servizio le mette fuori uso. Questo fatto ridonda a totale danno, oltre che dell’economia dell’erario, del morale delle truppe costrette alla vergogna di questa lacerazione e, in guerra, alle orribili sofferenze del gelo!»
«… … … … … …
Non è esagerazione il riconoscere come necessaria una estrema sanzione per i frodatori dell’erario in questi giorni poiché il loro delitto, oltre che frode, è rovina morale dell’esercito. – Io mi auguro che possano morire tisici, o di fame, o che vedano i loro figli scannati a colpi di scure. – Non posso far nulla: sono ufficiale, sono per giuramento legato a un patto infrangibile di disciplina; e poi la censura mi sequestrerebbe ogni protesta.»

Si doveva subire. Vedere il torto e subire.
Gli elmetti consentivano di distinguere tra i soldati appartenenti ai vari eserciti, per evitare, come pure avvenne, di ammazzare qualcuno dei nostri.
Le caccavelle (pentole) che proteggevano (poco) la testa dei soldati inglesi erano tonde, larghe, circondate da una falda; la loro forma un po’ ricordava i buffi copricapi neri che una volta si vedevano in testa ai preti in uscita, i cappelli detti Saturno. Le scodelle copricapo dei soldati inglesi avevano la falda più stretta e un po’ curva; quella dei Saturno era diritta e, naturalmente, poggiavano in modo molto più delicato e gentile sulla testa dei preti.

Gli elmetti dei soldati italiani erano bombati e privi, o quasi privi, di falda.
Solo a vederle, quelle caccavelle pesanti, in testa a giovani di tutte le nazioni, fanno venire il mal di capo.

I tedeschi sostituirono nel corso della guerra l’elmo ottocentesco prussiano (fornito in cima di un comico puntale conico) con la calotta d’acciaio che copriva interamente la nuca fino all’inizio del collo (o alla fine, dipende da dove lo facciamo cominciare).
L’elmo germanico, nel successivo periodo nazista, divenne simbolo evocatore della crudeltà, molto più dell’immagine del conte Dracula, che, in confronto alla maggior parte di quelli che stavano sotto a quella specie di secchio capovolto, era un bonaccione con gusti un po’ particolari, soprattutto riguardo alle bevande, e una struttura dentale non bella ma adeguata a soddisfarli.

Gli zaini, pesanti, erano caricati senza pietà sulle spalle dei soldati.
Forse quelli che pesavano sulle spalle dei soldati italiani non erano riforniti delle scatolette di cibo in scatola che il caporale inglese del film lascia alla povera donna francese perché possa sfamare la sua bambina.

Il caporale è generoso: anche lui ha fame e all’inizio scambia con il compagno un po’ di pane e bacon che, dice, sa di scarpa vecchia.
Le scatolette sono state aggiunte alla normale razione all’inizio della missione, con le granate e altre munizioni.

I poveri soldati in guerra portavano tutti gli stessi fucili, o molto simili (non m’intendo di fucili), la stessa stanchezza, la stessa paura, o molto simili (credo di intendermene).
Lo stesso orrore per il contatto continuo, ravvicinato, con tanti corpi feriti, amputati, con i cadaveri putrescenti.

Molti giovani furono mandati a fare la guerra, a uccidere e a morire, mentre i sovrani e i generali stavano al riparo
– dal 28 giugno 1914
uccisione a Sarajevo di Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede del trono d’Austria; 24 maggio 1915 entrata in guerra dell’Italia a fianco di Russia, Francia e Gran Bretagna, contro gli Imperi Centrali: Austria-Ungheria e Germania
– fino all’11 novembre 1918
resa dell’Austria e della Germania.
La guerra è finita. Finalmente! Comincia il dopoguerra («Non facciamo che l’anno prossimo, alla commemorazione, i reduci di guerra diventano il doppio!» – copyright Totò).

In mezzo tra le due date ci sono battaglie vinte, battaglie perse, lacrime versate in varie parti d’Europa e del mondo (intervennero Stati Uniti, Giappone, altri paesi).

Pietro Pirozzi, ultimo di cinque figli (l’altro maschio, Giovanni, era in seminario e se la cavò) fu chiamato a fare il soldato proprio mentre l’Italia era in guerra e fu mandato al fronte.
In famiglia era chiamato Pətruccə (/Pətrutƒə/).
Per il simbolo della e capovolta (schwa), vedi la nota in fondo al commento al film Achille Tarallo di Antonio Capuano, su questo sito.
/tƒ/ rappresenta il suono della ci dolce.
I napoletani evitano di pronunciare il dittongo (ie, io).
Pietruccio (/Piɛtrutƒiɔ/, con “e”, “o” molto aperte) diventa /Pətrutƒə/, che potrebbe essere reso con Pətruccə. I dittonghi si sono contratti nel suono tipico della lingua napoletana.

Dopo la lettera del regio esercito che, in termini burocratici, lo dichiarava disperso, alla famiglia rimase ben poco. Due fotografie erano state inviate da Pietro sotto forma di cartoline; c’erano i saluti, un pensiero tenero rivolto alla madre e un altro a mia madre, la sua nipotina, Martina, che, nata nel 1916, aveva fatto in tempo a conoscere. Martina era figlia della sorella di Pietro, Carolina.
Un pensiero assurdo: chissà se ora si sono rivisti! Se sì, in che modo, in quale forma? Lei è morta a 93 anni, lui si è trovato in quella bolgia quando ne aveva da poco compiuti 18.

Di quel periodo ai familiari rimasero le due cartoline e alcune lettere. Nient’altro. Disperso.

Immagino come abbiano consumato gli occhi su quelle due fotografie: una si trova in testa al commento, l’altra qui di seguito.

A quei tempi era complicato mantenere il fuoco per tutta la lunga esposizione. Il soggetto ritratto doveva stare fermo. La posa è uguale e la sigaretta è spenta. Probabilmente la forniva il fotografo per dare un senso a quel braccio teso, appoggiato a un treppiede.

La madre di Pietro si paralizzò dal dolore e rimase immobilizzata su una poltrona per il resto dei suoi giorni (nel 1918 morì anche Carolina: influenza spagnola).

Al mio bisnonno Nicola, padre di Pietro e di Carolina, ho sempre invidiato i baffi. Negli anni della mia adolescenza erano di moda, ma a me non crescevano così folti.

Per molti giuglianesi, soprattutto per quelli che allevavano un futuro prete, la città di riferimento non era Napoli ma Aversa (seminario, diocesi, ospedale, manicomio, scuole), più piccola e più “semplice” per un paesano; ci si andava con la favolosa ferrovia Alifana Piedimonte Matese (in origine si chiamava Piedimonte d’Alife), a scartamento ridotto, progettata fin dai primi del ‘900, entrata in funzione sulla tratta che collegava piazza Carlo III (Napoli) con Capua (quindi Giugliano con Aversa), nel 1913. Prima come facevano? Biroccio, carrozzella, piedivia.

Pietro aveva fatto in tempo a prendere la Piedimonte (così era chiamata). Era stato a Pompei (ricordi di zia Tanina), forse, qualche volta, a Roma, avendo un fratello seminarista.
A Pompei era andato in pellegrinaggio con gli altri familiari al Santuario di Bartolo Longo; non credo avesse mai visitato gli scavi, che, a partire dalla metà del ‘700, avevano portato alla luce testimonianze entusiasmanti della civiltà romana antica.

Non so quali studi avesse fatto; non mi dà l’idea di un intellettuale, anche perché, quando arrivò la chiamata alle armi, era molto giovane e raggiunse il grado di caporale. Quindi qualcosa aveva fatto.
In una vecchia libreria, che ora posso vedere solo con gli occhi dell’immaginazione, c’erano i libri su cui aveva studiato il futuro prete, non ho mai trovato il nome di Pietro su uno di quei libri.

Zia Tanina mi portava al cinema con i suoi racconti, quando la sala cinematografica era irraggiungibile; aveva la capacità di dare vita alle parole.

Capivo subito quando il suo racconto toccava aspetti che voleva tenere per sé: contrasti in famiglia, liti, problemi; aspettavo, poi tornavo sull’argomento con una domanda fintamente ingenua, sfruttando, con la furbizia dei bambini, la sua dolcezza e la sua voglia di raccontare.

Pietro fu messo su un treno insieme ad altri ragazzi del paese (ne ho conosciuto uno, un falegname che si chiamava Mast’Antonio e, raggiunta la vecchiaia, fu nominato commendatore per il suo passato di combattente della prima guerra mondiale, insieme a un altro sopravvissuto); con Pietro furono messi sui treni ragazzi provenienti da tanti paesini, da tante città.
Questo accadeva non solo in Italia ma in tutta Europa, anche fuori dell’Europa.

Dopo un breve addestramento furono mandati in trincea, col fucile, lo zaino, la caccavella sulla testa, gli stivali, la stanchezza, la fame, il sonno, la paura.

Il 23 dicembre 1915, due giorni prima di Natale, Giuseppe Ungaretti si trovò in una trincea a vegliare un compagno morto.

Cima Quattro, il 23 dicembre 1915

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
.
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

(Giuseppe Ungaretti)

La condizione in cui si trovarono questi poveri ragazzi seppelliti nelle trincee è ben rappresentata dal film che ha innescato il ricordo dei racconti di zia Tanina.
Il regista, Sam Mendes, esordì nel lungometraggio (era regista teatrale) nel 1999 con American Beauty.
È un film che rivedo volentieri (ho comprato il DVD), perché rappresenta una svolta nel modo di trattare al cinema lo scorrere del tempo.

Fino a Pulp fiction, di Quentin Tarantino (1994), le storie si svolgevano su una linea retta, su cui era disteso, tranquillo, pacifico, indifferente, col suo sigaro in bocca, il tempo, che andava avanti, dilatandosi o restringendosi in base alle esigenze del racconto. Ogni tanto un saltino, annunciato da una sfocatura caratteristica, ci portava per un po’ a un momento precedente; era il flashback. Poi si riprendeva. A volte, più raramente, il salto avveniva in avanti (flashforward), solitamente alla fine, per assicurarci che i due protagonisti si sarebbero sposati e avrebbero avuto almeno due o tre figli. Un po’ come “e vissero felici e contenti”.

Un modo geniale di trattare il tempo si trova in Annie Hall (1977), di Woody Allen. Alvy Singer interagisce con il sé stesso bambino, con i compagni di scuola, si siede nei banchi, parla con la maestra, con noi (più volte, in questo film, Woody “rompe la quarta parete”). Porta Annie e Rob a visitare il quartiere in cui è nato, la casa inserita nelle montagne russe; i tre amici si divertono osservando la grande famiglia dell’infanzia del protagonista. Sullo schermo interagiscono i personaggi del presente con i personaggi del passato.

In Pulp fiction (1994) il tempo è una variabile indipendente dal racconto, che non si svolge in modo lineare. Potrebbe generarsi confusione. Nessuna confusione, anzi: le cose risultano più chiare e più corrispondenti al modo bizzarro di funzionare del nostro cervello. Non è lineare ma va avanti per analogie. Bizzarro per modo di dire. Se non fosse così saremmo dei computer ambulanti, meno dotati di memoria di quelli sedentari. La nostra intelligenza viene proprio dalla capacità di elaborare le informazioni in molti modi, non solo seguendo un percorso lineare.

In American Beauty (1999), di Sam Mendes, il protagonista (interpretato da uno straordinario Kevin Kline) ci informa, nell’incipit, che alla fine del film sarà ucciso. È già morto, parla dall’oltretomba e c’invita a riflettere: come cambierebbe la vostra vita se sapeste che tra poco finirà?

Nel mio caso cambierebbe poco, perché, dopo una certa età, la domanda non è più retta da una subordinata condizionale; dunque ho deciso come vivere questa fase della vita, sapendo come andrà a finire. Vivo a modo mio (My Way: “And now the end is here / And so I face that final curtain / My friend I’ll make it clear / I’ll state my case, of which I’m certain / I’ve lived a life that’s full / I traveled each and every highway / And more, much more / I did it, I did it my way …” – Frank Sinatra, Paul Anka, Claude François).
Traduzione libera: «Ci siamo. La fine è vicina. Vedo la tenda (del teatro) che si chiuderà. Amici, ho chiaro il quadro della situazione. Ho vissuto una vita piena, ho camminato per tante strade, ma, più importante di tutto, l’ho fatto a modo mio».
Nel mio caso, non sempre I did it my way, but now, ma ora, I do it my way. Ora vivo a modo mio.

In 1917 Sam Mendes rende omaggio ai giovani di cui dicevo, quelli dei treni, degli zaini e delle caccavelle, fra i quali c’era suo nonno, scrittore, che aveva partecipato all’immenso dolore che invase il mondo in quegli anni, dolore che ne produsse altrettanto negli anni successivi, fino a provocare un’altra guerra che distrusse la vita non solo degli uomini in trincea.

Come in American Beauty, colpisce la perfezione formale del film.
Il regista recupera lo svolgimento classico, lineare del racconto.
La storia si svolge su una linea che dalla prima immagine dei due giovani assonnati, svegliati e convocati a colloquio dal generale, passa attraverso sforzi immani per portare a termine la missione, prima da entrambi, con il salvataggio di uno dei due da parte dell’altro, poi, rimasto solo, dal superstite, che vuole salvare i suoi compagni e mantenere la promessa fatta all’amico morente, a quel ragazzo che raccontava storie buffe.
Indimenticabili le scene nella città di Ecoust in fiamme, di notte: la narrazione si trasferisce dalla coscienza all’inconscio, diventa un incubo da cui il protagonista, e noi con lui, non riesce a svegliarsi.
Come in un incubo, il ragazzo si agita, è inseguito, si nasconde, stringe alla gola il nemico, corre. Si ritrova sempre lì, fra muri crollati e fiamme.
Un attimo di riposo, una carezza sulla nuca ferita, una donna e una bambina richiamano alla vita, poi riprende la missione, la lotta degli uomini, senza tregua e senza pietà.
Si scuote, precipita nel fiume, l’acqua lo risveglia, sta lì lì per perdere i sensi, riesce a liberarsi a fatica dai corpi in decomposizione, risale la riva, cade a terra, scoppia in un pianto dirotto, in un pianto disperato, premessa della liberazione finale.

Qualcuno ha scritto che questo film ha la struttura di un videogame: una corsa disseminata di ostacoli con tappe intermedie da superare per guadagnare punti e raggiungere l’obiettivo finale.
Secondo me non è così. Se fosse un videogioco non ci emozionerebbe; ci emoziona (in crescendo) perché i corpi che vediamo, morti, feriti, distrutti dalla stanchezza, non sono virtuali.
Sono reali le mani, le dita ferite, sporche di sangue, le unghie nere; è reale ed emozionante la stretta di mano tra il caporale che ha portato a termine la missione e il fratello del compagno morto.

Forse il personaggio principale è poco approfondito: per non rallentare l’azione non ci viene spiegata la sua psicologia; alla fine ci rimane sconosciuto.
Fin dalle prime battute sembra solo sconfortato, sembra non credere più a nulla: racconta di avere scambiato la medaglia d’oro guadagnata sul campo di battaglia con una bottiglia di vino.
Non aiuta il volto dell’attore, poco espressivo: quando non c’è un attore che parla con il viso dovrebbe aiutarci il testo, per capire come è arrivato a quel punto (scambiare una medaglia al valore per una bottiglia di vino). Però capiamo che cosa lo ha spinto a risalire la china, a comportarsi nuovamente in modo eroico, sull’esempio del compagno che amava raccontare cose buffe.
A parte questo, l’attore è bravo, come l’altro attore, come il regista e il direttore della fotografia (non so se si è capito: il film mi è piaciuto molto).

Un’osservazione che riguarda la storia raccontata: alla fine l’eroico caporale ce l’ha fatta da solo; dunque la missione, difficile, era possibile.
Dato che questa missione era così importante per salvare la vita a 1600 uomini, per quale motivo quel cazzo di generale, all’inizio, non ha mandato dieci uomini, anziché solo due?
C’è da pensare che al giovane caporale è andata anche bene, perché, raggiunta la tenda del comandante, avrebbe potuto trovarsi di fronte a un generale infiocchettato nella sua divisa impeccabile, deciso a condurre l’azione fino in fondo nonostante gli ordini superiori, per guadagnarsi un’altra medaglia da appuntarsi da solo sul petto, o con l’aiuto di un monarca.
Infatti l’ufficiale che aveva aiutato il giovane caporale ad attraversare una parte delle linee nemiche lo aveva lasciato con una raccomandazione: «Quando arriverai alla tenda del generale McKenzie, comandante del reggimento che stai cercando di salvare, dagli il foglio con gli ordini in presenza di testimoni»; «Perché?» aveva chiesto il caporale; «Perché alcuni generali vogliono combattere»; traduzione: vogliono portare a termine gli attacchi che hanno programmato, anche se costano inutilmente vite umane.

Scusate un inciso.

Goodbye Gran Bretagna! Da stasera, 31 gennaio 2020, non sarai più tra noi! Non ce l’hai fatta ad accettare un grande sogno, l’Europa, molto più grande di qualunque sovranismo nazionalista.
Addio, per ora. Ci rivedremo quando la buffa, ridicola monarchia sarà spazzata via e quell’imbecille di Boris avrà trovato il suo vero lavoro: buffone di corte («Helas, poor Yorick!»).

Il film 1917 consiste in una serie di piani sequenza (naturalmente non uno solo, come è stato detto) con carrellate che ci fanno entrare in quelle strette trincee, dove anche muoversi era difficile e se uno, come il giovane caporale, doveva raggiungere con urgenza la fine della fila, o l’inizio, era costretto a urtare come birilli i compagni e, qualche volta, a calpestare morti e feriti.

Povero Pətruccə! Povero Pietro, chissà se anche lui, come il quasi omonimo soldato della canzone di Fabrizio De André, mentre moriva, fu vegliato “da mille papaveri rossi”!