6 aprile 2020
Val di Fiemme

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
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L’ultima scoperta era stata quella bicicletta sul terrazzino, diritta; si vedeva anche da sotto, si vedevano il manubrio e la sella. Ci aveva incuriosito.

Non era una cyclette per signori in sovrappeso o per sportivi in allenamento.
Era una vecchia bicicletta, fissata con due perni a un telaio, in modo che le ruote potessero scorrere liberamente.
Su quella bicicletta, sul terrazzino, alcuni avevano visto un vecchio vestito con la tuta da operaio.
Pedalava.

Non tutti avevano visto un operaio. Qualcuno diceva trattarsi di un vecchio contadino che, su quel terrazzino, si spostava dal paese alla campagna, all’alba; guardava intorno il lavoro nei campi, i segni della primavera.
Di sera tornava al paese; ogni tanto guardava la luna, sporgendo un po’ la testa fuori, per vederla meglio.

Non era piegato in avanti, con la testa bassa, come i giovani che pedalano sulle loro leggerissime biciclette in fibra di carbonio, in titanio, con i caschi, i guanti, i pantaloncini e le gambe scoperte, depilate fino al ginocchio.
Stava seduto diritto sul sellino, appoggiato al manubrio, le braccia distese, la testa alta, orgoglioso di spingere avanti, con le sue robuste pedalate, la bicicletta pesante.

Il palazzone era completamente vuoto, come tutti gli altri. Prima si trovava in periferia, ma ora era difficile distinguere il centro dalla periferia. Tutto era stato divorato, distrutto dai topi, dai cani, dai gatti randagi, dai cinghiali, dalle volpi. Qualcuno diceva addirittura dai lupi.

Vuoti gli appartamenti, le porte sfondate, le suppellettili fatte a pezzettini dalla furia selvaggia di animali feroci, affamati, alla ricerca disperata del cibo che prima trovavano in abbondanza nelle fogne, tra i rifiuti, nella spazzatura, quando in quelle case c’erano gli uomini. Il cibo era finito dopo che gli uomini si erano chiusi in casa per salvarsi dal virus.
Le riserve di cibo erano state consumate fino all’ultima mollica di pane ammuffito, scaduto da mesi nelle buste di plastica.

Su quel terrazzino per molti giorni si era visto il vecchio operaio o contadino, non si sa, che, anziché chiudersi in casa e risparmiare le forze, come facevano gli altri, pedalava, pedalava, con la testa alta, girando la faccia intorno per vedere meglio, per riempirsi gli occhi della gente nelle strade, sui marciapiedi, nei negozi, affacciata alle finestre.

La gente – chiusa in casa – aveva cominciato a morire per sfinimento, per fame.

Erano arrivati gli animali furiosi; per primi i topi, poi gli altri.
Niente si era salvato dalla loro furia, dalla fame, dalla rabbia per essere stati abbandonati. I più feroci erano i cani, che conoscevano bene gli uomini, i loro ripostigli, i loro nascondigli, e si sentivano traditi.
Gli animali inselvatichiti avevano distrutto tutto.

Poi se n’erano andati nel loro ambiente naturale, negli spazi liberi dove potevano lottare per la sopravvivenza, ma senza essere devastati dalla rabbia, dalla furia distruttiva e autodistruttiva.

Nei palazzoni, rimasti vuoti, nulla si era salvato, non una fotografia appesa a una parete, un giocattolo, un bicchiere, nulla. Tutto ridotto a minuscoli pezzettini, tritato da mascelle potenti.

Solo quella bicicletta era rimasta, sul terrazzino dove un vecchio operaio, o contadino, aveva pedalato per alcuni giorni, prima di rientrare, sfinito, e adagiarsi sul letto.