24 settembre 2020 h 17.50
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto

Brigate rosse, terrorismo
// Il buco in testa (Antonio Capuano) // “Buongiorno, notte” e “Esterno notte: prima parte” (stesso commento) (Marco Bellocchio) // “Esterno notte: seconda parte” (Marco Bellocchio) // PADRENOSTRO (Claudio Noce) // Dopo la guerra (Annarita Zambrano) //

Il film mescola un dramma reale con l’immaginazione di un bambino di otto, nove anni, solo e turbato dal clima di tensione in cui la sua famiglia vive.
Nelle prime scene, prima che il dramma inizi (una specie di Prologo), Valerio porta una fetta di carne a un amico immaginario con cui gioca a Subbuteo (classico dono natalizio per i bambini negli anni settanta).
L’amico è immaginario, però la carne sparisce, non si vede nelle scene successive; da subito il regista ci dà il punto di vista del bambino che, tifoso della Lazio, gioca la sua partita (da solo) esaltandosi come se i tiri in porta fossero davvero di “Long John” Giorgio Chinaglia.
Molti bambini vivono l’esperienza dell’amico immaginario, ma se arrivano a perdere il contatto con la realtà, a portargli un pezzo di carne nascosto tra le pagine di un fumetto, i genitori farebbero bene a preoccuparsi.
Un conto è giocare con la propria immaginazione – negli anni settanta alimentata dai libri di avventure, dai film alla televisione, dai fumetti – sapendo che si tratta di immaginazione, un altro conto è non riuscire a distinguerla dalla realtà.

In seguito appare un ragazzo più grande, quattordicenne. Forse anche lui è amico immaginario, a tratti sembra reale, ogni tanto sparisce come la fetta di carne.
Christian è un ragazzo libero, autonomo, sicuro di sé, spregiudicato. È ciò che il bambino vorrebbe essere.
La famiglia di Valerio è costretta a trasferirsi da Roma in un posto sperduto della Calabria (un lungo viaggio in autostrada); sembra che il legame tra i due ragazzi sia spezzato dagli eventi.
Ma no. Christian è l’amico immaginario: raggiunge Valerio che gli chiede «come hai fatto a trovarmi?», risponde: «si viaggia anche in treno».
Non conosceva l’indirizzo, non ha una valigia, vive di niente, di piccoli furti, eppure compare nel posto dove la famiglia si è rifugiata.
È strano perché la famiglia del bambino è protetta dalla polizia in quanto il padre, magistrato, ha subìto un attentato dei Nuclei Armati Proletari, è stato ferito e nel corso della sparatoria un terrorista e un poliziotto sono morti.
I genitori di Valerio non sanno che, sceso di corsa per le scale al rumore degli spari, ha assistito alla morte del terrorista.

Il padre deve nascondersi perché i brigatisti dei NAP vogliono vendicare il compagno morto. Per questo tutta la famiglia si è trasferita in Calabria, seguita e accompagnata da poliziotti armati durante il trasferimento in macchina e oltre, nella casa dei nonni paterni, in campagna.
In questa situazione blindata, un ragazzo di quattordici anni, sconosciuto, comparso dal nulla, riesce a raggiungere la famiglia del bambino nel folto della Sila, mentre i terroristi diffondono messaggi minacciosi e ammazzano un collega e amico del padre.

Tutto ciò è possibile, penso tra me e me, perché si tratta dell’amico immaginario, prodotto della fantasia di un ragazzo solo e scosso, che ha assistito alla morte di un uomo, nel corso dell’attentato in cui il padre è rimasto ferito senza riportare cicatrici: non se ne vedono sul corpo di Pierfrancesco Favino quando va in barca e si tuffa in mare.
Dopo l’attentato, nell’autoambulanza, accompagnato dalla moglie, sembrava ferito gravemente; nei giorni successivi i bambini chiedevano ripetutamente alla madre: quando torna papà? Quindi la degenza è durata a lungo (è sempre difficile valutare i tempi in un film).

Ma no. Christian non è immaginario. Addirittura questo ragazzo sconosciuto – quando un vecchio gli rivolge la bellissima espressione meridionale «a chi appartieni?», che significa «chi sono i tuoi genitori, i tuoi nonni, dov’è la tua famiglia?», non ci è dato di sentire la risposta – questo ragazzo, comparso dal nulla, viene ospitato dalla famiglia del magistrato, dorme a casa sua nella stanza di Valerio, va sulla spiaggia, gira in bicicletta, è portato sulla barca a pescare, rischia di annegare quando il bambino, in un momento di collera, lo spinge in mare.

Di notte i due ragazzi lasciano la stanza da letto e vanno in una casa abbandonata, bevono vino, forse si ubriacano, urlano. I due sceneggiatori di questo film, Enrico Audenino e il regista Claudio Noce, vorrebbero farci credere che questo possa accadere, nonostante la casa del magistrato, verosimilmente, sia supercontrollata dalla polizia.

Dunque il ragazzo non è immaginario, nonostante sia apparso misteriosamente sulla Sila e a Roma ogni tanto sparisse (il bambino si girava e non lo vedeva più). Improvvisamente e senza preavviso è diventato reale.

Alla fine sparisce di nuovo (è la sua specialità), dopo che il magistrato ha scoperto per caso che si tratta del figlio del terrorista ammazzato nel corso dell’attentato in cui lui è rimasto ferito senza riportare cicatrici e conseguenze. Sarebbe bastato trovare prima i ritagli di giornale nel borsello del ragazzo, oppure chiedergli un documento, o scattare una foto e avviare una ricerca, per evitare tanti pericoli; da un magistrato ci si aspetterebbe un occhio un po’ più esperto e maggiore attenzione a chi riceve in casa, data la situazione. Dai poliziotti addetti alla sicurezza della sua famiglia ci si aspetterebbe maggiore professionalità.

Se il ragazzo fosse annegato quando il bambino l’ha spinto in acqua, il giorno dopo qualche giornale avrebbe titolato: “Vendetta trasversale. Il figlio di un magistrato uccide il figlio di un terrorista che aveva partecipato a un agguato in cui il magistrato era rimasto ferito e il terrorista era morto”. Qualche altro giornale avrebbe sottolineato che un minorenne non può essere accolto sotto il tetto di un adulto senza il permesso dei genitori o dei tutori. Questo un magistrato dovrebbe saperlo.

Per quale motivo Christian non avverte i terroristi amici del padre? I motivi possono essere tanti, ma sembra che il regista non si ponga la domanda, e, di conseguenza, non ci dà la chiave per trovare una risposta.

Il film prende spunto da un dramma vissuto dalla famiglia di Claudio Noce negli anni settanta, ma, ci avverte una nota dopo i titoli di testa, è liberamente ispirato a fatti reali. Non c’era bisogno della nota, l’abbiamo capito da soli (mi riferisco al “liberamente”).

Nella trasposizione cinematografica della vicenda il regista mescola realtà e fantasia, con l’intenzione evidente di mettersi dal punto di vista del bambino. La scelta è legittima, però, una volta fatta, ci si dovrebbe attenere rigorosamente ad essa.
Per esempio, in Jojo Rabbit il racconto si svolge tutto dal punto di vista del bambino. La guerra, il nazismo, la persecuzione degli ebrei, i bombardamenti, la conclusione, tutto. Hitler è l’amico immaginario di Jojo Rabbit dall’inizio alla fine, senza interruzione di continuità.
In questo film, invece, il punto di vista cambia, passa come se niente fosse dal bambino al padre, ogni tanto anche alla madre.

Così ci spiazza, ci fa perdere la fiducia in ciò che vediamo sullo schermo.
L’amico immaginario diventa reale, cambia la maglietta per indossarne una pulita. Chi gliel’ha data? In quella casa non c’è nessun ragazzo con la sua taglia e lui non ha una valigia, ma solo un borsello che serve per il colpo di scena finale, preannunciato da una battuta del magistrato (sembrava una battuta incongruente, poi ho capito che serviva a richiamare la nostra attenzione sul borsello, oggetto di culto negli anni settanta).
Realtà e fantasia si possono mescolare, volendo; un punto di vista fantastico si può mettere al centro della storia, però bisogna essere Fellini per riuscire a farlo senza infastidire lo spettatore, senza spiazzarlo, senza minare la fiducia infantile che dobbiamo avere in ciò che accade sullo schermo. Se non si è Federico Fellini, bisogna essere Taika Waititi, il regista di Jojo Rabbit. Oppure bisogna essere Charlie Chaplin, se non è chiedere troppo (decisamente lo è).
A nulla serve cercare di emozionarci inseguendo i primi piani e anche con questa tecnica esagerando.

In un paio di occasioni stavo per alzarmi e uscire dalla sala, perché mi offendo quando la sceneggiatura non mi convince; mi sembra uno sgarbo personale. Ma era una giornata piovosa, porto il più a lungo possibile, fino a quando arriva l’inverno, le scarpe da ginnastica bucherellate e mi dà fastidio bagnarmi i piedi. Poi speravo che si affrontasse l’argomento suggerito dal titolo: il rapporto tra padre e figlio nel momento in cui il figlio comincia a percepire fortemente se stesso, il proprio corpo, la propria diversità dal padre e ha bisogno di lui come modello.

Si accenna a questo argomento, qua e là nel film: il ragazzo guarda con interesse, con curiosità il padre mentre si rade e disinfetta con l’allume di rocca un piccolo taglio sul mento.
Lo osserva mentre, sotto un lenzuolo, si riposa nel caldo pomeriggio estivo; aspetta con ansia il suo ritorno, perché, naturalmente, la madre non gli basta.
Pierfrancesco Favino riesce a descrivere anche con i silenzi, con il corpo massiccio, con i lineamenti marcati e tesi la figura di questo padre all’antica.
Però il tema del rapporto padre figlio non è svolto fino in fondo, nonostante la bravura dell’attore che interpreta il padre e dell’attore che interpreta il figlio.

A un certo punto ho cominciato ad agitarmi (internamente); il titolo mi aveva spinto a prendere il treno per Pisa nonostante la giornata piovosa, a sottopormi alla mascherina per tutta la durata del film, a fornire nome e recapito telefonico all’ingresso, a sedermi in poltrona distanziato dalle sette, otto persone, non di più, che hanno fatto la mia stessa scelta.

C’era, nel titolo, il richiamo ad Affabulazione, il testo teatrale degli anni sessanta, “scandaloso”, in versi liberi, di Pier Paolo Pasolini. Il richiamo è non solo per il monologo del Padre, riportato di seguito, ma anche per i capelli biondi del figlio: «Perché – mi chiedo – mio figlio è così biondo? Ecco, devo pensare a lui: a questo fenomeno, intanto: lo strano fenomeno della biondezza», dice il Padre di Affabulazione, interpretato in una famosa edizione da Vittorio Gassman nel Teatro Tenda di Roma. Nessun altro collegamento, nessun altro riferimento, anche perché nel testo di Pasolini il figlio è un giovane, qui è un bambino.

Quando ho capito che niente di interessante sarebbe venuto dal film, solo una trama confusa e a tratti assurda, una conclusione banale, sono rimasto per buona educazione, per l’inutile buona educazione, e per la pioggia che mi aspettava all’uscita dalla sala.

Padre nostro, da Affabulazione (Pier Paolo Pasolini)

Padre nostro che sei nei Cieli,

io non sono mai stato ridicolo in tutta la vita.

Ho sempre avuto negli occhi un velo d’ironia.

Padre nostro che sei nei Cieli:

ecco un tuo figlio che, in terra, è padre …

È a terra, non si difende più …

Se tu lo interroghi, egli è pronto a risponderti.

È loquace. Come quelli che hanno appena avuto

una disgrazia e sono abituati alle disgrazie.

Anzi, ha bisogno, lui, di parlare:

tanto che ti parla anche se tu non lo interroghi.

Quanta inutile buona educazione!

Non sono mai stato maleducato una volta nella mia vita.

Avevo il tratto staccato dalle cose, e sapevo tacere.

Per difendermi, dopo l’ironia, avevo il silenzio.

Padre nostro che sei nei Cieli:

sono divenuto padre, e il grigio degli alberi

sfioriti, e ormai senza frutti,

il grigio delle eclissi, per mano tua mi ha sempre difeso.

Mi ha difeso dallo scandalo, dal dare in pasto

agli altri il mio potere perduto.

Infatti, Dio, io non ho mai dato l’ombra di uno scandalo.

Ero protetto dal mio possedere e dall’esperienza

del possedere, che mi rendeva, appunto,

ironico, silenzioso e infine inattaccabile come mio padre.

Ora tu mi hai lasciato.

Ah, ah, lo so ben io cosa ho sognato

Quel maledetto pomeriggio! Ho sognato Te.

Ecco perché è cambiata la mia vita.

E allora, poiché Ti ho,

che me ne faccio della paura del ridicolo?

I miei occhi sono divenuti due buffi e nudi

lampioni del mio deserto e della mia miseria.

Padre nostro che sei nei Cieli!

Che me ne faccio della mia buona educazione?

Chiacchiererò con Te come una vecchia, o come un povero

operaio che viene dalla campagna, reso quasi nudo

dalla coscienza dei quattro soldi che guadagna

e che dà subito alla moglie – restando, lui, squattrinato,

come un ragazzo, malgrado le sue tempie grigie

e i calzoni larghi e grigi delle persone anziane …

chiacchiererò con la mancanza di pudore

della gente inferiore, che Ti è tanto cara.

Sei contento? Ti confido il mio dolore;

e sto qui ad aspettare la tua risposta

come un miserabile e buon gatto aspetta

gli avanzi, sotto il tavolo: Ti guardo, Ti guardo fisso,

come un bambino imbambolato e senza dignità.

La buona reputazione, ah, ah!

Padre nostro che sei nei Cieli,

che me ne faccio della buona reputazione, e del destino

– che sembrava tutt’uno col mio corpo e il mio tratto –

di non fare per nessuna ragione al mondo parlare di me?

Che me ne faccio di questa persona

cosi ben difesa contro gli imprevisti?