6 dicembre 2020
San Miniato (PI)

La malattia
(“Tu sì ‘na malatia / Ca mə passa si tu stai cu me“)
// L’invenzione della neve (malattia mentale) // The father (Alzheimer) // Zona arancione (pandemia) // Zona rossa (pandemia) // Ci risiamo! (pandemia) // Se c’è un aldilà sono fottuto (tossicodipendenza) // Dopo la liberazione provvisoria (pandemia) // L’illogica allegria (pandemia) // La mascherina (pandemia) // Tutto il mio folle amore (autismo) // La linea verticale (cancro) // Arrivederci professore // Dolor y gloria // Domani è un altro giorno // Don’t worry // Quanto basta (autismo) // The party //

Fra poco è Natale, in questo 2020 che è iniziato con tanta pesantezza e sta per concludersi a modo suo.
Ogni giorno, da mesi, subiamo il bollettino dei positivi al virus, dei ricoverati in terapia intensiva, dei morti.
Bollettini di guerra ci annunciano i numeri di una tragedia che, come tutte le guerre, non colpisce tutti allo stesso modo.
Alcuni sono morti, in solitudine, tra corpi estranei, nelle trincee.
Alcuni hanno perso affetti profondi e sono disperati al pensiero degli ultimi momenti di vita dei propri cari, morti da soli nelle trincee.
Alcuni hanno addosso ferite che impiegheranno molto tempo per rimarginarsi.
Alcuni sono precipitati nella miseria: fino all’anno scorso riuscivano a tirare avanti con lavori precari, con lavori al nero, sperando in tempi migliori. I tempi migliori non sono arrivati. È arrivata la pandemia.
Come in tutte le guerre, c’è chi si è arricchito e chi se l’è cavata, più o meno, senza gravi danni.
Ho sbagliato i tempi. Dovrei dire: muoiono, perdono affetti, precipitano nella miseria, chi si arricchisce e chi se la sta cavando, perché la guerra è presente, non è finita, anche se qualche segnale di speranza s’intravede.

Tutti abbiamo perso e stiamo perdendo qualcosa.
Non potremo più ammucchiarci insieme agli altri, staremo attenti a non sfiorarci con gli sconosciuti. Ci limiteremo nello sfioramento anche con le persone che conosciamo.
Faremo la fila distanziati; per molto tempo non vedremo un cinema, un teatro, uno stadio strapieni.
L’ultima sala strapiena in cui sono entrato è l’Odeon di Pisa, dove ho visto Tolo Tolo di Luca Medici (Checco Zalone), il 4 gennaio 2020. Poi ho continuato ad andare al cinema, fino al 7 marzo (Volevo nascondermi, al Principe – Firenze); il giorno dopo è stata decretata la chiusura delle sale.
Riporto di seguito la foto che ho messo in cima al commento sull’ultimo film che ho visto in una sala affollata.

Quest’immagine mi fa impressione, al pensiero di come sono cambiate le cose: non portavamo la mascherina – non sapevamo che cosa fosse; la parola maschera ci faceva pensare al carnevale, per le persone istruite evocava il teatro antico e antichissimo – stavamo vicini, appiccicati uno all’altro. Non sapevamo che ci stavamo scambiando le goccioline microscopiche.
Ora che lo sappiamo non ci sentiamo meglio per questo; si è solo aggiunta una preoccupazione.
Chissà per quanto tempo nessuno spazio potrà più essere strapieno di uomini e donne che si sfiorano, si parlano a distanza ravvicinata.
Le folle accalcate nella sala del Louvre per ammirare la Gioconda non faranno più storcere il naso ai critici d’arte snob. Stesso discorso per i turisti che si mettevano in fila davanti agli Uffizi.
Chissà per quanto tempo i fedeli che aspettano in piazza San Pietro la domenica mattina saranno a un metro di distanza l’uno dall’altro e si scambieranno sguardi preoccupati.
Qualcuno, un tantino paranoico, si domanderà: siamo sicuri che qualche goccia prodotta da sua santità non raggiunga la piazza? A ogni buon conto si scanserà, si metterà un po’ più indietro. I virologi, in televisione, litigheranno tra di loro per stabilire chi ha i titoli giusti per dirimere la questione («Lei non ha competenze sulle gocce di saliva prodotte dal papa! Io sono specializzato in Teologia medica e Infettivologia sacra»).

Non so quando riprenderemo a stringerci la mano; un antico gesto di pace rischia di essere dimenticato (ti porgo la mano nuda e mi aspetto che tu la stringa per dimostrare che anche tu sei disarmato ).

I giovani si abitueranno a un’altra normalità.
Succederà come con l’AIDS.
Quando, da adolescente, superai la pigrizia, l’esitazione, il timore di mettermi in situazioni scomode e, per un periodo, mi misi a girare con un sacco sulle spalle, dormendo negli Ostelli della gioventù, mi entusiasmò non solo il senso di libertà sconfinata – a quei tempi viaggiare in treno, dormire e mangiare nei cosiddetti Youth Hostel in Europa ai giovani costava veramente poco – mi entusiasmò soprattutto la possibilità di rapporti sessuali estremamente facili, con ragazze incontrate il giorno prima che il giorno dopo avrebbero proseguito in un’altra direzione.
Era una festa! La libertà sessuale fu una grande scoperta per uno che era vissuto in un ambiente provinciale.

In seguito venne fuori il pericolo dell’AIDS e ci fu un freno alla libertà; si capì che chiunque poteva essere portatore del virus e poteva diffonderlo inconsapevolmente.
In una pubblicità televisiva proiettata anche nei cinema prima del film, diffusa per informare soprattutto i giovani, un uomo conosceva (in senso biblico) una prostituta (la prostituzione, lo scambio di siringhe tra i drogati e i rapporti omosessuali erano un veicolo di diffusione dell’AIDS). Il virus si trasmetteva dalla prostituta all’uomo, dall’uomo alla moglie, dalla moglie all’amante della moglie, dall’amante della moglie alla sua fidanzata. La povera ragazza, tutta casa, chiesa e un po’ di petting spinto col fidanzato in attesa del matrimonio, si domandava: com’è stato possibile? Ogni volta che il virus passava di mano (per modo di dire) un alone colorato illuminava la figura che lo riceveva (benvenuto nel club). La mia descrizione, ovviamente, si basa su un ricordo e non è proprio precisa, ma il senso era quello.
Si suggeriva l’uso del preservativo, ma il preservativo, utilissimo, poteva rompersi, non essere calzato adeguatamente, avere qualche difetto di fabbrica e non impediva altri contatti intimi ugualmente pericolosi.
Fine della libertà.

Si determinò una nuova normalità. La spensieratezza nei rapporti sessuali degli anni precedenti era finita.

Prepariamoci a un mondo in cui sarà normale avvertire diffidenza nei confronti di chi è seduto vicino (sarà vaccinato? avrà fatto il richiamo?) e tenderemo a scegliere un posto da soli.
Si potrebbe obiettare a questa mia visione pessimista che già ora, quando una regione passa dalla zona rossa alla zona arancione, la gente si precipita nelle strade, nei negozi e vorrebbe affollare le piste da sci e le cabinovie, nonostante non sia scongiurato il pericolo di agevolare la trasmissione del virus.
Abbiamo voglia di libertà.
Però non bisogna confondere l’esplosione che succede alla chiusura, all’isolamento, alle restrizioni della libertà di movimento con il ritorno alla spensieratezza nella normalità della vita.

Una giornata invernale, in attesa di un Natale particolare.
Festeggio il passaggio della mia regione dalla zona rossa alla zona arancione con una lunga camminata rilassante, in campagna.
Attività sportiva consentita.

Vedo vari sportivi individuali, come sono definiti nel dpcm: corrono, camminano, vanno in bicicletta.
Ognuno per conto suo. Quando incrocio qualcuno che cammina, come me, non ci guardiamo. Se camminiamo sullo stesso lato della strada, uno dei due attraversa la strada, come se fosse suonato un campanello d’allarme.
Forse abbiamo preso alla lettera la parola individuale, o le mie fosche previsioni si stanno avverando.
Mi pare di ricordare che prima, nell’era precedente, ci fosse l’abitudine di guardarsi e salutarsi, anche tra sconosciuti.

Via! È solo un’impressione dovuta alla tristezza di questo Natale.

Ci sono gli ulivi, le galline, le pecore, un coniglio, una piccola cappella, quasi una capanna.
Improvvisamente, inaspettato, su un cancello aperto il segno di una nascita.

Meno male: anche quest’anno in campagna c’è il presepe.
“… Non sono mai stato tanto attaccato alla vita” (Giuseppe Ungaretti).

Quannə nascettə ninnə

È un canto, scritto da Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (Napoli, 1696 – Nocera dei Pagani, 1787), da cui deriva “Tu scendi dalle stelle”.
Il simbolo ə designa la vocale centrale media caratteristica della lingua napoletana, come nella seconda e terza sillaba della parola sdrucciola mammətə = tua madre. (Vedi anche, su questo sito, la nota nel commento al film Achille Tarallo di Antonio Capuano).

Quannə nascettə ninnə a Betlemme, era nott’e parevə miezjuornə.
Majə li stellə lustr’e bellə sə vədèttər’accussì (Mai s’erano viste le stelle così lustre e belle).
A chiù lucentə jett’a chiammà li Maggə (andò a chiamare i Magi) a l’Orientə.

Də pressə sə scətajənə l’auciellə (gli uccelli si svegliarono in fretta), cantannə e na forma tutta nova.
Pə’nsì ‘e grillə (persino i grilli), cu li strillə e zumpannə accà e allà (saltando di qua e di là), «è natə, è natə», dicevənə, «lu Dio chə cià (che ci ha) criatə!» («è nato, è nato», dicevano, «il Dio che ci ha creati!»).

Cu tuttə ch’era viernə (nonostante fosse inverno), Ninnə bellə, ascettər’a migliarə ros’e sciurə (spuntarono migliaia di rose e fiori).
Pə’nsì ‘o ffienə (persino il fieno) sicch’e tuostə ca fui puostə sott’a te (secco e duro, che fu posto sul tuo giaciglio) sə nfigliulettə e də frunnellə e sciurə sə vəstettə (si vestì di foglie e fiori).

A nu paesə ca sə chiammə Gaddə (Engaddi; la Bibbia – Cantico dei Cantici 1, 14 – parla delle vigne di Engaddi: l’oasi di Ein Gedi, sulla riva ovest del Mar Morto) sciurettərə li vign’e ascettə l’uvə (fiorirono le vigne e spuntò l’uva).
Ninnu miə sapurətiellə, rappusciellə nə si tu, ca tutt’ammorə (bambino mio saporito, tu ne sei un grappolino, sei tutto amore), fajə docə ‘a vocca e mbriachə ‘o corə (addolcisci la bocca e ubriachi il cuore).

Nun c’erano nemiscə (nemici) pə la Terra: a pecora pasceva co lionə.
Co caprettə sə vədèttə ‘o liupardə pazzià (si vide il leopardo giocare col capretto), l’urzə e ‘o vətiellə (l’orso e il vitello), e co lu lupə mpacə (in pace) ‘o pəcuriellə (l’agnellino).

S’arrəvutajə nsomma tutt’o munnə (insomma si rivoltò tutto il mondo), ‘o cielə, ‘a terrə, ‘o marə e tutt’a gentə.
Chi durmevə sə səntevə n’piett’o corə pazzià pə la priezzə (sentiva il cuore sbattere in petto per la gioia); e sə sunnavə pacə e cuntəntezzə (sognava pace e contentezza).

Guardavənə li pecor’i pasturə (i pastori guardavano le pecore), e n’angelo, sbrennentə (splendente) chiù do solə, cumparettə (comparve) e llə dicettə «nun və spavəntatə, no. Cuntent’e risə, ‘a terr’è addəvəntatə (diventata) Paravisə».

«A vujə è natə oggə a Bettalemmə do munnə ll’aspəttatə Sarvatorə (l’atteso Salvatore del mondo). Dint’e pannə ‘o trovarritə, nun putitə majə sgarrà (non vi potete sbagliare), arravugliatə (avvolto nei panni), e dint’a lo Presebbio cuccatə» (coricato nel presepe).

Alcuni passaggi sono geniali: sembra quasi giocare tra la verità di fede (la nascita di Gesù) e la creazione artistica (il presepe).

Sbattev’o corə n piettə a sti Pasturə (sbatteva il cuore a questi pastori), e ll’unə n’facci’a ll’atə dicevə (l’uno diceva all’altro; in napoletano “dire qualcosa francamente a qualcuno” si traduce con dirə n’faccia): «chə tardammə? Priest’jammə! (non tardiamo, presto, andiamo!) ca mə sentə scəvulì (mi sento venir meno) pə lo golìo chə tenghə də vədé sto Ninnə Dio» (dal desiderio che ho di vedere questo Bambino Dio).

Zumpannə comm’a cierəvə fərutə, (saltando come cervi feriti) currettər’i pasturə a la Capanna; là truvajənə a Maria (trovarono Maria) co Giuseppe e ‘a Gioia mia; e n’chillu visə pruvajənə nu muorz’e Paravisə (in quel viso provarono un assaggio di Paradiso). Muorzə è letteralmente un morso, per esempio: nu muorz’e panə, un morso di pane: un pezzetto di pane, una piccola cosa da mettere sotto i denti per far passare la fame.

Rəstajənə ‘ncantatə e voccapiertə (a bocca aperta) pə tantu tiempə senza dì parola; po jəttannə, lacrəmannə, nu suspirə pə sfucà, (poi gettando, in lacrime, un sospiro per liberarsi dall’eccesso di emozione) da dint’o corə cacciajənə a migliarə attə d’ammorə (emisero mille gesti d’amore).

C’a scusə də donarə li prəsientə (con la scusa di porgere i doni), sə jettənə azzəccannə chianu chianə (si accostarono piano piano). Ninnə no li rəfiutajə, ll’azzəttajə – comm’a dì (il bambino non li rifiutò, come dire: li accettò) ca llə məttettə ‘e mmanə n’capə e li benedicettə (mise le mani sul loro capo e li benedisse).

Piglianno cunfrenzi’a pochə a pochə, (prendendo confidenza a poco a poco), cercajənə licenzia a la mamma (chiesero il permesso alla mamma), e mangiajənə li pedillə co i vasillə – mprimmo – e po’ chelli manellə, all’urtəmə lu muss’e i mascariellə (riempirono di bacini i piedini, prima, poi le manine, infine il musetto e le guance).
(Alfonso Maria de’ Liguori)

Gesù Bambino è diventato un neonato come tanti che nascono in questo momento in ogni parte del mondo, al quale i pastori s’inchinano perché davanti al miracolo della vita viene spontaneo inchinarsi incantati e carezzare amorevolmente le manine e i piedini del neonato.
La parte del canto riportata è quella che mi piace di più.