28 dicembre 2020

Amicizia (scoperta, coltivata o tradita)
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I

Sono magazziniere in una piccola fabbrica, in un paesino del nord solcato da un fiume, un fiumiciattolo che d’estate è quasi a secco, poi scorre tranquillo sotto il ponte che dall’estrema periferia agricola porta verso la periferia occupata da capannoni, fabbriche e case popolari.
Dalla zona industriale, arrampicandosi sulla collina, si arriva al centro del paese, tra vie strette che s’intersecano, fino a raggiungere una piazza dominata dalla chiesa madre, ottocentesca come la maggior parte degli edifici del centro storico.
Le case della periferia industriale hanno la struttura tipica dell’edilizia popolare anni sessanta e settanta, sembrano casermoni squadrati messi uno accanto all’altro senza nessun criterio logico, sfruttando al massimo lo spazio compreso tra i capannoni. Sono abitate soprattutto dagli operai locali, che trovano conveniente vivere vicino alla fabbrica.
Nessuna area edificabile è stata risparmiata; poi si è cominciato a costruire dall’altra parte del fiume, dove si estendono campi abbandonati, orti, piccoli vigneti. Altre case popolari abitate dagli operai meridionali arrivati all’epoca dell’esplosione dell’attività industriale, il cosiddetto boom, che chiedeva manodopera e spingeva i contadini del sud a emigrare verso il nord.
In seguito, quando il boom è finito e si sono succedute varie crisi, da queste parti sono arrivati e continuano ad arrivare i figli degli impiegati del sud (una volta estinti i contadini e i piccoli agricoltori), forniti di diploma dalla scuola di massa, che non trovano l’impiego fisso nel pubblico e sono costretti ad accontentarsi di un lavoro qualsiasi, mettendo da parte, quasi nascondendo, il titolo di studio.
La geografia del posto è la seguente: centro storico in alto sulla collina, capannoni industriali e case degli operai in basso, lungo il fiume; ponte, altre case di operai (gli ultimi arrivati), piccole fattorie superstiti, sopravvissute alla distruzione avvenuta all’epoca della costruzione del raccordo autostradale.
Le industrie avevano bisogno di collegarsi rapidamente con il resto del paese e con l’estero, le amministrazioni comunali di diverso orientamento politico che si sono succedute a partire dagli anni sessanta erano d’accordo su un solo punto e un solo obiettivo sono riuscite a realizzare pienamente: la costruzione del raccordo autostradale.
Le inaugurazioni si sono succedute negli anni, fino alla conclusione dei lavori. All’ultima, definitiva, ha partecipato un ministro.
Fra gli ultimi operai arrivati dal sud ci sono io: diploma, qualche esame all’Università, che ho abbandonato perché non mi andava di impegnarmi, sgobbare sui libri per ritrovarmi disoccupato, costretto a vivere con i genitori.
Ho fatto la valigia e sono approdato in questo paese, attratto da un annuncio letto sulla bacheca dell’agenzia interinale: cercasi magazziniere.
Lo stipendio è misero, ma è uno stipendio e – chissà! – col tempo ci sarà l’occasione di utilizzare il diploma per trovare un impiego migliore. Intanto riesco a mantenermi.
Ho trovato un monolocale in affitto, nella parte agricola del paese, dove una volta c’era la campagna e ora, affacciandosi alla finestra, si vedono i piloni dell’autostrada, non lontano dal ponte che ogni mattina, come molti altri, attraverso nella striscia riservata ai pedoni per raggiungere la fabbrica, poco distante.
Insieme agli adulti attraversano il ponte molti ragazzi che vanno a scuola nella succursale dell’Istituto Comprensivo (elementari e medie) situato nel centro storico. Sono i figli degli operai meridionali che hanno portato su o hanno formato in loco una famiglia.
I ragazzi e i bambini provenienti dalla zona agricola non sono accompagnati. La scuola è vicina al ponte: basta attraversarlo. Si perderebbe più tempo in macchina o con i pulmini, nel traffico che ogni mattina si congestiona. Ai veicoli diretti alla zona industriale, tra i quali molti camion e camioncini, si aggiungono le automobili che vanno in direzione opposta per portare altri operai, altri impiegati, nei paesi vicini; è inevitabile la lunga fila di macchine ferme con il motore acceso davanti al semaforo verde.
Una fila di adulti, di ragazzi e di bambini percorre la zona del ponte riservata ai pedoni.

Una mattina d’inverno, in mezzo a questa gente che cammina infagottata per ripararsi dal vento e guarda il fiume gonfio d’acqua, sono rimasto sbigottito. Tra i bambini c’era uno che conoscevo, ma non poteva essere là.
Era un mio compagno delle elementari. Un bambino! Non era un adulto la cui fisionomia mi riportasse a un compagno delle elementari. No. Era proprio un bambino: Basile Errico.
Non è possibile, pensavo, sto sognando! Intanto lo guardavo.
Era come me lo ricordavo, anche dalle fotografie di fine anno scolastico.
Camminava da solo, con un’andatura goffa, esattamente come il mio compagno di scuola, che era assai solitario, anzi, più che solitario, isolato.
Era isolato perché più sporco degli altri e imbambolato; sembrava mezzo addormentato.
Aveva sempre delle macchie sul grembiule, e, in particolare, sul petto, dovute alla saliva che non riusciva a trattenere nella bocca semiaperta. I capelli arruffati, l’aria perennemente confusa, stordita.
Basile era sottoposto ai lazzi e agli scherzi di tutti, in particolare ai miei.
La maestra l’aveva messo a sedere accanto a me, pensando di fare bene, perché anch’io ero abbastanza chiuso di carattere e un po’ isolato dai compagni.
La maestra aveva pensato male, aveva fatto male.
Non avendo altri su cui sfogare la mia aggressività, la sfogavo su Basile, cercando di rendergli un inferno le ore di permanenza a scuola, senza darlo a vedere.
Ogni tanto una parola, una risatina, una malignità, uno scherzo; approfittavo della sua incapacità di difendersi, sia perché di fisico più piccolo del mio, sia perché non aveva l’iniziativa di alzare la mano e chiedere aiuto alla maestra.
Subiva, fino al punto di guardarmi impaurito quando tornava al banco dopo essere uscito per andare in bagno. Ricordo il suo sguardo di cagnolino picchiato.
Una parola su una macchiolina che si era formata sul grembiule, un’altra parola su una goccia che gli colava dal naso; ripetevo, fingendo di mormorare tra me e me, il nome di scherno con cui era chiamato da tutti: Chechecco.
Lo chiamavamo così perché una volta, volendo dire “tedesco”, gli era uscita di bocca questa parola. Tutti a ridere e da quel momento Errico era diventato Chechecco.
A questa opera di demolizione collaborava tutta la classe, tutti concordi nel considerare Basile un essere inferiore, meritevole di disprezzo.
La maestra ignorava il dramma, ci invitava a collaborare; ci faceva mettere un solo libro per ogni banco, quando un compagno leggeva. Diceva: seguite insieme sul libro, il più bravo aiuti chi ha difficoltà.
Mentre con gli occhi seguivo il punto di lettura, appoggiavo di proposito il dito su un punto diverso della pagina per confondere Basile, che non era capace di leggere come me. Mi divertivo a vedere, di sottecchi, il suo sguardo confuso, perché sapeva che io leggevo bene e si fidava più del mio dito che di ciò che sentiva. Si fidava, poi si confondeva e non riusciva ad andare avanti quando la maestra lo chiamava a continuare la lettura. Tutti ridevano. Il poveretto si meravigliava per la prontezza con cui, arrivato il mio turno, trovavo immediatamente il punto giusto. Capiva di essere stato preso in giro e mi guardava con quello sguardo di cagnolino bastonato che non riesco a togliermi dalla memoria.
La malignità che mettevo nel tormentarlo, nella mia funzione di compagno di banco, era considerata in modo positivo dagli altri alunni, contribuiva ad allontanarmi dall’isolamento in cui anch’io rischiavo di finire, perché di carattere chiuso, timido, impacciato.
La cattiveria era un titolo di merito, mi faceva accettare dagli altri, faceva scomparire la mia diversità, piccola in confronto alla diversità di Basile.
La cattiveria era un prezzo da pagare per appartenere al gruppo.

Ed eccolo Basile, che non vedevo dai tempi delle elementari, nella lunga fila che percorreva ogni mattina il ponte per raggiungere la scuola o la fabbrica.
Non era un sogno.
Rividi il bambino il giorno dopo e nei giorni successivi. Camminava sempre da solo, non si avvicinava agli altri bambini che facevano lo stesso percorso e, spesso, finiva col trovarsi tra gli adulti.
Nei giorni seguenti cercai, piano piano, di avvicinarmi a lui, pur rendendomi conto del pericolo insito in questa manovra: se qualcuno l’avesse notata avrebbe potuto sospettare mie losche intenzioni e denunciarmi o farmi mettere sotto controllo. Però volevo capire chi fosse quel bambino identico al bambino che tormentavo da piccolo.
Finché una mattina, dopo esserci scambiato uno sguardo, gli ho rivolto la parola: «Ciao».
Lui mi ha guardato e ha risposto: «Ciao».
Impressione? Suggestione? La stessa voce. Fortemente nasale. La ricordo bene perché mi esibivo nell’imitazione, tappandomi le narici con due dita. La cosa mi riusciva, faceva molto ridere e stroncava ogni tentativo di Errico di partecipare a una chiacchiera tra ragazzi, di dire qualcosa, di sentirsi uguale agli altri. Il tentativo non riuscito lo umiliava ancora di più, se ne tornava al banco ad aspettare la fine dell’intervallo.
Nessuno lo difendeva, cazzo! Nessuno. La maestra, impegnata a conversare con le colleghe, non si accorgeva di nulla. Forse anche a lei non importava.
Nei giorni seguenti mi ha riconosciuto e, quando mi sono avvicinato, mi ha detto subito: «Ciao».
Ho risposto e ho proseguito guardando avanti, per non farmi vedere troppo insistente.
Ho notato che anche lui cercava di avvicinarsi e, nei giorni successivi, quando incontrava il mio sguardo, anche da lontano, mi salutava.
Una mattina ho risposto: «Ciao Errico».
Lui mi ha guardato con stupore, con curiosità e ha detto: «Conosci il mio nome?»
«Ti chiami Errico Basile?» ho risposto.
«Mi chiamo Enrico Basile, mio padre ha messo la enne perché non si può dare il nome del padre al figlio.»
«Tu sei il figlio del mio compagno di scuola?»
«Mio padre si chiama Errico, io mi chiamo Enrico Basile», ha ripetuto, come avrebbe fatto il padre da piccolo, senza rispondere, e ha affrettato il passo per non restare indietro. Forse, ho pensato, non ha capito la domanda.
Aveva capito.
L’ho visto, il giorno dopo, avvicinarsi in modo più deciso. Mi ha salutato e ha chiesto «Come ti chiami?»
«Mi chiamo Mattia», ho risposto.
Non appena ha sentito il mio nome si è rabbuiato, ha abbassato lo sguardo e si è allontanato quasi di corsa.
Non l’ho più visto.

Penso che abbia detto al padre: ho conosciuto un tuo compagno di scuola elementare. Il padre si è fatto attento; gli ha detto: chiedigli come si chiama, e ha aggiunto: se si chiama Mattia allontanati, perché è un uomo cattivo.
Sarà andata così. Non posso dare torto a Errico, dopo quello che gli ho fatto passare.
Eppure mi piacerebbe spiegargli che ora sono diverso, e che anche allora non lo facevo per pura e semplice cattiveria.
La cattiveria c’era. Era la cattiveria del bambino che stringe tra le mani l’uccellino caduto dall’albero fino a soffocarlo. Era la cattiveria del bambino che tira la coda al cane.
No. Mi direbbe Errico. Ti stai giustificando. Non eri così piccolo da non renderti conto del dolore che mi provocavi.
Tu godevi nel farmi soffrire! E ora vorresti declassare il mio dolore a una faccenda di bambini, poco importante, quasi naturale.Tu non mi davi requie e non avevi un briciolo di pietà per un bambino come te, che ti guardava con gli occhi di un cagnolino bastonato.
Questo è il punto, risponderei: non volevo ammettere quel “come te”. Non volevo ammettere che ero uguale a te: anche sul mio grembiule c’era qualche macchia, anch’io non riuscivo sempre a evitare che una goccia di saliva uscisse dalla bocca e lasciasse un segno sul petto o un po’ di moccio uscisse dal naso.
Anch’io avevo paura degli altri bambini, temevo di essere schernito e mi sarei volentieri avvicinato a un adulto per sentirmi protetto.
Non so come Errico prenderebbe questa confessione, ma anche se rifiutasse il mio abbraccio, anche se mi guardasse con disprezzo, anche se mi intimasse di andare via e mi minacciasse con un bastone, anche se mi bastonasse, sarei contento di liberarmi dal senso di colpa che mi rode dentro da quando l’ho perso di vista, di liberarmi dal rimorso, dal timore di avere influito negativamente sulla vita di un uomo.

Che segno è dare il proprio nome al figlio?
È un modo per affermare con forza ciò che si è, in un mondo che vuole annullarti. È un modo per dire: io ci sono, io esisto, a dispetto di tutti i Mattia. Esisto. Dopo di me ci sarà mio figlio, che voi isolerete e cercherete di annullare, ma non ci riuscirete. Noi esistiamo. Siamo diversi da voi, ma esistiamo.
Ho sognato di incontrare Errico e constatare che il mio compagno di classe ha superato tutte le difficoltà dei rapporti con gli altri; forse, addirittura, la sofferenza lo ha reso più forte, gli è servita da scuola per affrontare meglio gli ostacoli che si presentano nella vita di tutti (se leggesse queste righe, certamente direbbe: non ti basta giustificarti, ora vuoi fartene un merito).
Ho sognato di scoprire in lui un uomo molto più intelligente, più colto, più realizzato di me. Ho sognato di poter ricoprire con tanti bei gesti di amicizia quei brutti ricordi e che lui potesse dire, un giorno: Mattia è il mio migliore amico.
Se questo accadesse realmente, troverei una nuova spinta per vivere.
Intanto guardo in quella fila ogni mattina, rallento, mi faccio superare. Spero di vedere Enrico, spero che mi rivolga uno sguardo, anche da lontano, e mi dica: «Ciao Mattia».

II

L’angoscia è durata dieci anni.
In questi dieci anni mi sono sposato, ho avuto due figli, ho cambiato casa, sempre nella zona agricola: un appartamentino indipendente.
Non ho cambiato lavoro, anzi mi sono dovuto aggrappare al lavoro di magazziniere quando hanno cominciato a licenziare. Ho accettato ore di straordinario non retribuito, ho sacrificato giorni di ferie.

A maggio ho avvertito dolori che all’inizio andavano e venivano, poi … per farla breve, il medico sospetta un tumore allo stomaco.
Inutile dire che mi è crollato il mondo addosso.
Il chirurgo, al quale il medico di famiglia mi ha indirizzato, mi ha prescritto una serie di analisi di laboratorio e di esami da eseguire nell’antico ospedale della cittadina, recentemente ristrutturato.
Ha detto: «Cerchiamo di capire che cosa è successo».
C’è ancora la speranza che il mondo trovi il modo di rialzarsi in piedi e di liberarmi del suo peso.

Sono in sala di attesa da due ore quando un giovane, vestito da infermiere, mi si avvicina e mi dice: «Venga, l’accompagno in sala».
È lui.

Certamente mi ha riconosciuto: ha guardato sulla cartella il mio nome, come per controllare un ricordo.
Giunti in sala mi ha detto di spogliarmi, di tenere addosso solo mutande, calzini e canottiera e di indossare una specie di camice bianco, ruvido al contatto.
Ho eseguito.
Si è assicurato che non avessi addosso anelli o collanine e mi ha invitato a sdraiarmi su un lettino, dentro a una specie di capsula spaziale.
Ho eseguito.

Ha detto: «Ora aspettiamo il professore per iniziare, stia tranquillo e cerchi di rilassarsi».
Io lo guardavo. Avevo riconosciuto non solo la fisionomia: la voce, il timbro nasale del padre. Anche il modo di muoversi era suo, un po’ impacciato, ma aveva acquisito una sicurezza che non potevo ricordare nel padre, perché l’avevo perso di vista dopo le elementari.
Forse, pensavo, Enrico è diventato come appare, uno sicuro di sé che non si fa sconvolgere più di tanto da un uomo “cattivo”, soprattutto se l’uomo cattivo è terrorizzato, come ero io in quel momento.
Mi ha guardato e mi ha detto: «Se ha bisogno di qualcosa, me lo dica».
Subito, d’istinto, ho risposto: «Ho bisogno di vedere tuo padre».
Senza mostrare meraviglia, nel modo più naturale, ha detto, con un sorriso che non dimenticherò: «Farò tutto il possibile».
«Dopo il nostro incontro di tanti anni fa mio padre mi aveva detto di evitare di frequentarla perché non aveva un buon ricordo dei compagni delle elementari, e in particolare di lei.
Mi raccontò del bullismo che aveva dovuto subire, da tutti.
Mi disse che era stata anche un po’ colpa sua, perché bisogna difendersi, non devi consentire agli altri di trattarti male, mi disse. Questo consiglio mi è stato molto utile.
Anch’io avevo subito alcuni compagni, poi, quando ci siamo trasferiti nel centro storico e sono passato nella sede centrale della scuola, ho cominciato a difendermi e i problemi sono finiti. Ho imparato a difendermi».

«All’inizio ogni tanto mio padre la rammentava, diceva: forse sono stato troppo duro, avrei dovuto dargli una possibilità. La gente cambia. Tutti cambiamo».
«Una volta andò sul ponte, di mattina, per incontrarti, ma tu non c’eri».
«Poi ce ne siamo dimenticati».

Quando è passato dal lei al tu ho avvertito un brivido di contentezza.
Ho visto entrare il professore. Enrico ha preso il suo posto accanto alla macchina.
Sono sicuro che uscirò vivo da questa esperienza. Ne uscirò sano. Già mi sento meglio.