16 maggio 2018 h 18.00
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto

Temi
Neorealismo (vecchio e nuovo)
// Palazzina Laf // C’è ancora domani // Kafka a Teheran // Profeti // Gli orsi non esistono // Il male non esiste // Un eroe // Ladri di biciclette // Il vizio della speranza // Cosa dirà la gente

Religioni e/o superstizioni
// The Miracle Club // C’è ancora domani (il matrimonio cattolico) // Kafka a Teheran (Islam) // Rapito (Il Papa Re) // Benedetta (Cattolicesimo) // Holy Spider (Islam) // Profeti (Islam) // Chiara (Cattolicesimo) // Gli orsi non esistono (Islam) // Alla vita (Ebraismo ortodosso) // Il male non esiste (Islam) // Un eroe (Islam) // The Youngest (Ebraismo ortodosso) // Covered up (Ebraismo ortodosso) // Corpus Christi (Cattolicesimo) // Un divano a Tunisi (Islam e psicanalisi) // The dead don’t die (nel commento: fede e dubbio) // Mug Un’altra vita (Cattolicesimo polacco) // Il settimo sigillo (il silenzio di Dio) // L’apparizione (Cattolicesimo) // Cosa dirà la gente (Islam) // Io c’è (religione e denaro) // The Young Pope (Cattolicesimo) //

Il Giorno online
10 maggio 2018 – Sana è stata strangolata, il papà confessa. Brescia, il referto dell’autopsia: “Spezzato l’osso del collo”. Mustafa Ghulam arrestato col figlio «Abbiamo litigato, Sana mi ha insultato»
La Stampa online
11 maggio 2018 – Per l’omicidio di Sana indagate anche mamma e zia. Svolta nel caso della 25enne residente a Brescia uccisa in Pakistan
La Stampa online
15 maggio 2018 – Omicidio di Sana in Pakistan, dopo il padre e il fratello arrestati anche due cugini

Speriamo che le notizie non siano confermate, ma, allo stato dei fatti, sembra che Sana Cheema, 25 anni, pakistana, cresciuta in Italia, sia stata uccisa dal padre e dal fratello con la complicità dei cugini, mentre la madre e la zia assistevano al delitto. Possibile che la superstizione possa spingere i “credenti” fino a questo punto?
Se questa versione dei fatti sarà confermata, Sana (che assomiglia molto alla protagonista del film) sarà l’ennesima vittima di una religione molto diffusa nel mondo, una religione che limita fortemente la libertà di scelta e l’autonomia delle donne, mettendole sotto la tutela degli uomini.

Solo quando non sarà più un segno di sottomissione per milioni di donne, quando non sarà obbligatorio per nessuno nascondere i capelli o il viso, l’hijab potrà essere considerato alla stregua di un foulard o di una sciarpa; ora è un simbolo di schiavitù e un mezzo per perpetuarla, come erano le catene per gli schiavi afroamericani.

Il burqa imprigiona il corpo delle donne; è uno strumento di tortura: dovrebbe essere vietato in un paese civile.
Il “cencio medioevale” (per citare Oriana Fallaci in un’intervista a Komeini) che nasconde i capelli e parte del volto, si può accettare, se è una scelta delle povere credenti.
Però dobbiamo essere sicuri che sia una scelta autonoma, soprattutto se incornicia il volto di una ragazzina.
Se una minorenne, ma anche una maggiorenne, di famiglia musulmana, cresciuta in Europa, vuole liberarsi da questo segno e da un dominio che va molto oltre la potestà genitoriale consentita da noi, bisogna aiutarla in tutti i modi.

È la storia di questo film.
Si ispira a una vicenda vissuta personalmente dalla regista; una storia a lieto fine perché la ragazza, dopo tante oppressioni e sofferenze inflitte dai suoi genitori per paura del giudizio degli altri (le prime esperienze sessuali di una adolescente vissute come un delitto), riesce a scappare, a liberarsi allontanandosi dalla famiglia.

Scappa, ragazza, scappa, non fidarti dei genitori, dei fratelli, delle zie, dei cugini, dei nonni, resi ottusi e crudeli dal fanatismo religioso e dal controllo ossessivo del gruppo sul singolo.
Non fare come quella ragazza che, tornata in famiglia dalla casa protetta, è stata riportata in Pakistan e costretta ad abortire, come ha drammaticamente rivelato nel suo ultimo messaggio via Internet.

Farah, la studentessa di Verona riportata in Pakistan dai genitori e costretta ad abortire.
«Mi hanno legata al letto e hanno ucciso il mio bambino» (I messaggi su Whatsapp – La Repubblica online 17 maggio 2018).

Il film è anche la storia di un padre che ama i figli, si farebbe ammazzare per proteggerli; un padre tenero: ogni sera fa il giro delle camere da letto per rimboccare le coperte e dare una carezza ai bambini che dormono.
Ha lottato duramente per offrire alla sua famiglia una vita migliore in Norvegia e una sera scopre che la figlia adolescente è diventata donna, nel suo lettino c’è un ragazzo che lei ha accolto.
La scoperta lo imbestialisce.
Per qualunque uomo sarebbe una scoperta difficile, su cui riflettere per poterla metabolizzare.
Ma in questo caso c’è un’aggravante: la religione con i suoi tabù.
Non basta: c’è il controllo ossessivo della comunità (emigranti che si sono chiusi in un ghetto anziché aprirsi al mondo che li ha accolti, dove hanno trovato rifugio): la ragazza mette in cattiva luce la famiglia, costituisce un cattivo esempio per i giovani di quella comunità.
Il brav’uomo si ritrova trasformato in Mr Hide, come il dottor Jeckill dopo avere bevuto la pozione.
La dipendenza dal giudizio degli altri, rinforzata dalla religione, fanno venire fuori tutto il male che c’è in lui; diventa una bestia feroce, peggio di una bestia.
Il controllo ferreo del gruppo sul singolo era presente in passato da noi (penso a Sedotta e abbandonata di Pietro Germi), ma qui la religione, con i suoi principi intoccabili, esercita un ruolo molto più forte, costruisce un muro invalicabile; la ferocia dello stato legittima la ferocia della comunità.
Non dimentichiamo che l’Islam non ammette la separazione tra religione e stato e impone le sue regole con la forza coercitiva delle leggi.

Il film genera un sentimento di avversione verso quell’uomo – che arriva a condurre la figlia su una rupe e a chiederle di suicidarsi (il mio vicino di poltrona a questo punto ha esclamato: «bastardo!», e non aveva torto) – e anche verso la madre, fredda, implacabile, priva di affetto e timorosa solo del giudizio degli altri.
Forse le donne che hanno patito e accettato la condizione di inferiorità nei confronti dell’uomo, il matrimonio deciso dai parenti, alla fine odiano qualunque manifestazione di indipendenza da parte delle figlie, non sopportano che le figlie possano liberarsi dall’oppressione che esse hanno subìto.
Quando invecchiano, acquistano il diritto di sfogarsi verso l’uomo di casa, come la nonna in Pakistan che prende a male parole il marito della figlia, è autorizzata a trattarlo come un coglione, ora che è troppo vecchia per poter cambiare la propria condizione di dipendenza.

Un film efficace; almeno due spettatori l’hanno seguito con partecipazione emotiva: io e il mio vicino di poltrona; a lui, perfetto sconosciuto, che ha gridato «bastardo!» al personaggio sullo schermo, mi sono sentito in obbligo di suggerire poco dopo, a voce bassa per timidezza, «la madre è peggio del padre», ricevendo la sua approvazione, proprio come ai tempi in cui gli spettatori solidarizzavano tra di loro contro i personaggi cattivi sullo schermo, con commenti ad alta voce e scambi di battute.

Credo sarebbe opportuno far girare Cosa dirà la gente nelle scuole, principalmente dove ci sono ragazze di famiglia musulmana, in modo da stimolarle a valutare la propria situazione e, se necessario, a chiedere aiuto.
Queste ragazze, nelle loro camerette, stanno correndo il pericolo di vedere trasformare la propria famiglia in una banda di sequestratori e, in alcuni casi, di assassini.
Stanno lottando anche per noi, in quanto evidenziano che la nostra civiltà, la nostra “liberté, egalité, fraternité”, con tutti i suoi difetti, consente un modo di vivere più umano di una religione che pretende di condizionare ogni aspetto della vita degli individui e di farli vivere nell’obbedienza e nella sofferenza, nella sottomissione, in attesa della liberazione che si raggiungerà solo con la morte.