30 marzo 2019 h 17.30
Cinema Spazio Uno Firenze – via del Sole, 10
Altro film del regista: // Holy Spider //
Suspense (alta tensione: thriller e/o horror)
// Doppia Pelle [Le Daim] // BlackBerry (thriller tecnologico) // Club Zero (horror alimentare) // Come pecore in mezzo ai lupi // Sanctuary (thriller psicologico) // Beau ha paura [Beau is afraid] // Cane che abbaia non morde [Barking dogs never bite] // Preparativi per stare insieme … (thriller psicologico) // L’ultima notte di Amore (noir metropolitano) // Holy Spider // M3GAN (thriller distopico) // Bones and All (horror cannibale) // Nido di vipere // L’homme de la cave [Un’ombra sulla verità] // La fiera delle illusioni // America Latina // Raw (horror cannibale) // Titane // Il sospetto [Jagten] // Favolacce // Notorious! (thriller H.) // Parasite // Il signor diavolo // The dead don’t die (gli zombie sono tornati) // Border: creature di confine // La casa di Jack // Gli uccelli [The birds] (horror H.) // L’albero del vicino //
Un film inquietante; altro che Lars von Trier e i suoi manichini!
Che cosa si trova scavando dentro all’Homo Sapiens, cioè dentro di noi?
Se si scava bene – se si supera la crosta esterna fatta di convenzioni sociali, di sistemi di controllo e di autocontrollo dei pensieri e dei comportamenti, di interventi sul nostro aspetto fisico attraverso quotidiane, più o meno prolungate, abluzioni in stanze apposite, dove provvediamo a depilarci, truccarci, riempirci di creme per eliminare il nostro odore, per poi rivestirci di panni, di oggetti complicati e di pensieri razionali – si trova l’uomo primitivo da cui deriviamo.
Ogni tanto l’animale fa capolino, supera la barriera degli orpelli con cui rivestiamo e nascondiamo la nostra natura più profonda, rimasta immutata nei milioni di anni in cui si è svolta l’evoluzione dell’uomo, a partire da esseri viventi che, per motivi non del tutto noti, hanno preso una strada di progressivi cambiamenti, a conclusione dei quali, fino a questo momento, ci siamo noi.
Si tratta di evoluzione.
I residui creazionisti farebbero bene a rassegnarsi, per non finire tra i ridicoli seguaci della terra piatta o fra i testimoni di Geova, che indicavano il 1914 come data della fine del mondo, poi l’hanno spostata al 1918, poi al 1925, poi al 1940, poi … non so quali altre date abbiano scovato per un evento continuamente portato avanti.
Io credo alla serietà della parola: se uno mi dice che domani ci sarà la fine del mondo, dopodomani farà bene a non farsi vedere se la fine del mondo non è avvenuta (se è avvenuta sarà difficile farsi vedere).
L’uomo modellato con il fango, a immagine e somiglianza di Dio – realtà o simbolo è lo stesso – l’uomo al centro dell’universo, unico, irripetibile, superiore a tutti gli altri esseri viventi, è una favola, inventata forse per la paura del “richiamo della foresta” che potrebbe prevalere e tante volte prevale, reso più feroce dalle capacità logiche, sviluppate e messe al servizio di istinti negati e, per questo, incontrollati.
Un colpo a questa credenza era stato dato, prima di Darwin, da Copernico, con la sostituzione della visione geocentrica con la visione eliocentrica.
Ora l’astronomia ci ha mostrato che neanche il Sole è al centro dell’Universo, neanche il Sistema Solare, neanche la Galassia in cui è inserito. Ma poi chi ha detto che debba per forza esserci un centro dell’Universo?
In assenza di certezze (la condizione umana è inevitabilmente intrecciata al dubbio), ha più senso chiudere gli occhi e credere alle favole o, invece, affidarsi, tenendo gli occhi bene aperti, alle prove faticosamente raccolte e vagliate utilizzando un metodo che dal 1600 ci ha permesso di fare enormi progressi?
Gli scienziati hanno trovato ossa, pietre scheggiate, manufatti, un numero enorme di disegni e graffiti tracciati sulle pareti delle caverne: non siamo gli unici ominidi apparsi su questo pianeta, altre specie appartenenti alla famiglia Hominidae e, addirittura, altre appartenenti al genere Homo, sono state presenti sulla Terra per migliaia di anni.
Le categorie descrittive della classificazione di Linneo (un creazionista d’ingegno) servono a orientarsi nell’organizzazione dei viventi, un po’ come l’analisi grammaticale serve a capire l’organizzazione del discorso (partire dall’analisi logica, come fanno alcune maestre e maestri, è sbagliato: prima si dividono i sassolini, le foglie, le parole in mucchietti in base alla forma).
Nomenclatura binomiale: genere (nome generico), specie (nome specifico).
Gli appartenenti alla stessa specie hanno non solo molte caratteristiche comuni, ma possono tra loro riprodursi e generano individui fertili; cavallo e asino possono tra loro riprodursi, ma, quando ciò avviene, i loro figli sono sterili. Esempio: il mulo (la mamma nitrisce), il bardotto (la mamma si produce nel caratteristico raglio, su due vocali alternate: ih oh). Dunque: cavallo e asino appartengono a specie diverse: Equus Ferus Caballus e Equus Africanus Asinus.
Le categorie principali della classificazione di Linneo, riferite al cane, per intenderci, sono: dominio (Eukaryota), regno (Animalia), phylum (Chordata), subphylum (Vertebrata), classe (Mammalia), ordine (Carnivora), famiglia (Canidae), genere (Canis), specie (Canis Familiaris).
Per il lupo: tutte le stesse voci, tranne l’ultima: specie (Canis Lupus).
In realtà, fra il cane e il lupo (Canis Lupus Italicus), che vive nell’Appennino e sempre più spesso si avvicina ai centri abitati alla ricerca di cibo, si osservano casi di interfertilità: cani randagi, in condizioni particolari, incontrano lupi e, anziché essere aggrediti, come avviene normalmente, si accoppiano; nascono ibridi fertili che hanno i caratteri dominanti del lupo (per esempio il manto nero), restano nel branco e, riproducendosi, diffondono parti del proprio DNA.
Dobbiamo dunque affermare che cane e lupo sono due varianti della stessa specie. Per risolvere il busillis, si ricorre al concetto di sottospecie, che poi è lo stesso di variante. Dunque il cane appartiene alla sottospecie Canis Lupus Familiaris.
La paleontologia procede con metodo induttivo, raccogliendo e studiando i resti, tutti i segni (i cosiddetti fossili) che possono farsi risalire alla presenza di esseri viventi preistorici – non solo ossa; in qualche caso fortunato: resti di pelle, ma anche pietre lavorate, manufatti, orme.
Esaminando le ossa fossili, eseguendo su di esse misurazioni accurate, non si hanno certezze. Però è possibile datarle con buona approssimazione, determinare l’età dell’individuo a cui appartenevano, la sua statura, il peso, il tipo di alimentazione, la capacità del cranio e le conseguenti dimensioni del cervello, la forma del cranio, la forma degli arti, la proporzione tra le varie parti, l’abilità nella manipolazione degli oggetti, la presenza della stazione eretta, l’appartenenza ad una determinata specie (attraverso l’esame del DNA) e molte altre caratteristiche morfologiche, funzionali e comportamentali.
Dai ritrovamenti sembra che il capostipite comune alle scimmie antropomorfe e agli uomini (famiglia Hominidae), attraverso una serie di passaggi intermedi e di rami laterali, molti dei quali corrispondenti a specie estinte, sia il Pierolapithecus (ordine Primates, famiglia Hominidae, genere Pierolapithecus, specie Pierolapithecus catalaunicus), vissuto in quella che oggi è la Spagna (Catalogna), dai 13 ai 7 milioni di anni fa, in una situazione ambientale e climatica molto diversa dall’attuale (anche una situazione politica diversa perché non c’erano, sembra, i movimenti indipendentisti catalani).
Viveva sugli alberi, saltando di ramo in ramo; era un mammifero di piccole dimensioni, si nutriva principalmente di frutta e di insetti; usava un bastoncino per catturare le termiti; le sue caratteristiche somatiche, sebbene assai primitive, lo pongono sull’albero genealogico che conduce, attraverso una lunga serie di passaggi, all’uomo e alle scimmie attuali.
Per essere esatti, in termini evoluzionisti, questa specie, estinta, si troverebbe sull’albero filogenetico che ha sui suoi rami più recenti il genere Homo e i vari generi a cui appartengono le scimmie antropomorfe.
Bisogna tenere presente che il Mar Mediterraneo ha avuto profondi cambiamenti nel corso delle ere geologiche; intorno a 5 milioni di anni fa, in seguito ad una glaciazione, il livello dei mari si abbassò sensibilmente, la rocca di Gibilterra venne allo scoperto fino all’Africa e impedì alle acque dell’Atlantico di fluire nel Mediterraneo.
Si determinò il prosciugamento del mare che consentì la dispersione delle specie animali dall’Europa all’Africa e viceversa.
Stiamo parlando di milioni di anni. Il Dio della Bibbia, personificato in tanti racconti (Dio disse, si rallegrò, si riposò …) e quello del Corano, fissato con i capelli e il viso delle donne, che cosa facevano in questo lungo periodo? Stavano a guardare. Il Dio del Corano cercò di convincere le femmine dei pieropitechi a nascondere il viso (era la sua fissazione), ma senza successo. Dove dobbiamo collocare Adamo ed Eva e il paradiso terrestre? Ho capito. È un mito. Allora ditelo a quelli che ci vogliono credere per forza! Ditegli che tanto vale credere a Giove, a Marte, a Venere, che sono anche più divertenti. O agli dei misteriosi, con tutte quelle braccia, dell’Induismo. O a quel grassone di Buddha, che ci invita a passare il tempo a contemplare l’ombelico. Tanto vale, anzi mi sembra meglio, prendere esempio dagli Apache: il culto degli antenati (senza esagerare).
Il disseccamento del Mediterraneo fa pensare che il Pierolapithecus possa essersi diffuso dall’Europa all’Africa – quando le pianure del Sahara attuale si ricoprivano di foreste – dando luogo alle varie specie di ominidi che si sono evolute nei due continenti.
Sono ipotesi basate su dati, su misure, dunque non sono certezze; non sono la verità, sono solo ipotesi, teorie scientifiche, fondate sul metodo elaborato intorno al 1600 soprattutto da Galileo Galilei, il metodo che ci ha portati a disporre di computer e smartphone, a viaggiare nello spazio, a vivere meglio, assai meglio di quando i problemi si affrontavano ricorrendo agli oracoli, agli aruspici, ai profeti, ai sacerdoti delle religioni che imponevano le loro “certezze”, la loro fede, le loro indiscutibili interpretazioni della “parola di Dio”, le loro regole ed obblighi annessi: liturgici, alimentari, ma soprattutto sessuali (i religiosi sono sempre stati un po’ fissati con il sesso; non parlano d’altro!).
Passano milioni di anni (eravamo a 7), arriviamo a circa 3 milioni di anni fa.
In Africa troviamo i cosiddetti Australopitechi, che alla fine si estingueranno (tutte le specie appartenenti a quel genere si sono estinte), e i primi, più antichi animali che possiamo inserire nel genere Homo (varie specie).
Estratto dalla scheda – Museo di Scienze Naturali – Calci (Pisa): “Il diorama rappresenta tre individui appartenenti alla specie Australopithecus afarensis (specie estinta), che, si ritiene, 3,6 milioni di anni fa aveva già raggiunto l’andatura bipede. Una delle testimonianze più convincenti dell’origine del bipedismo è certamente quella relativa alle orme di Laetoli (Tanzania). Il sito, scoperto nella prima metà degli anni ’70, si trova lungo la Rift Valley, dove sono stati ritrovati numerosi resti di ominidi fossili. Circa 3,6 milioni di anni fa l’eruzione del vuicano Sadiman provocò la deposizione sul suolo di un’enorme quantità di ceneri. Centinaia di animali calpestarono il tappeto di ceneri, lasciandovi le impronte che le piogge, successivamente cadute, consolidarono. Infine, processi erosivi durati milioni di anni riportarono alla luce l’antico suolo. Fra le migliaia di impronte animali, ce ne sono alcune davvero speciali: quelle, appunto, dell’Australopithecus Afarensis. Lo studio delle orme, condotto dall’équipe di Mary Leakey, constatò l’andatura bipede degli ominidi, ne valutò il numero e formulò ipotesi sul sesso e sull’età degli individui. Il diorama mostra tre soggetti: il primo è un robusto maschio adulto, alto circa 150 cm, che precede un giovane individuo forse di sesso femminile, alto circa 120 cm. Chiude la fila un altro maschio, di statura inferiore al precedente (circa 130 cm). I primi due australopiteci stringono nelle mani dei bastoni, raccolti dal suolo, utilizzati, forse, come arnesi da scavo o da difesa. Fra le varie specie animali che hanno lasciato le loro orme a Laetoli si possono riconoscere elefanti, giraffe, un equide oggi estinto, appartenente al genere Hipparion, e alcune faraone (Numida sp.).
Tutti i Primates (ordine) che sono felicemente arrivati fino al momento preciso in cui scrivo, in particolare gli uomini e le Scimmie Antropomorfe (gorilla, scimpanzé, bonobo e orango), appartengono alla famiglia Hominidae, come gli Australopitechi, ma a generi diversi; noi apparteniamo al genere Homo.
Scheletro di Orango del Borneo: fatte le debite proporzioni (rapporto tra le dimensioni e diverso sviluppo delle varie parti), sono le stesse ossa che compongono lo scheletro umano.
Lo scimpanzé condivide circa il 98% del DNA dell’uomo.
Gli appartenenti alla stessa Famiglia (Hominidae) presentano una notevole somiglianza delle strutture anatomiche: Uomo e Ominidi attuali (Scimmie Antropomorfe), Uomo e Ominidi estinti (Australopitechi), di cui ci restano i fossili.
Intorno a 3 milioni di anni fa, in Sud Africa vivevano i Sediba (ordine Primates, famiglia Hominidae, genere Australopithecus, specie Australopithecus Sediba), cercatori raccoglitori; cercavano e raccoglievano radici e carcasse di animali; queste ultime erano molto ambite (fornivano proteine preziose), ma accompagnate da pericoli (i predatori non stavano a guardare).
Alcuni si spingevano nella savana, che avanzava, alla ricerca di carcasse. Usavano le selci per rompere e tagliare le radici e per staccare la carne dalle ossa.
Avevano cominciato ad articolare la fonazione (si deduce dalla posizione della laringe).
Si verifica una svolta importante: una parte dei Sediba va nella savana in cerca di cibo (i più avventurosi, o, meglio, mutanti casualmente dotati di alcune caratteristiche somatiche), una parte resta sugli alberi, al riparo della foresta (i più timorosi o, meglio, meno atti a scendere dai rami).
Quelli che si avventurano nella savana trovano più cibo, si muovono sempre meglio nel nuovo ambiente, tendono ad accoppiarsi tra di loro, a trasmettere ai nuovi nati la parte di DNA che ha dato loro la possibilità di fare questo passo avanti nella scala evolutiva. A un certo punto avviene la separazione. Possiamo riunire il nuovo gruppo in un altro mucchietto; si è formato un nuovo genere: il genere Homo. Gli appartenenti a questo genere sono i nostri progenitori.
Questo è un punto fermo nell’attuale sviluppo della paleontologia.
Non è la verità: un’altra interpretazione dei dati raccolti potrà dimostrarsi più convincente in futuro, altri fossili si potranno trovare, ma ciò che conta è che questa interpretazione si basa sull’esame dei dati finora conosciuti, non sull’ipse dixit o sulla fede, che impedisce ogni discussione, ogni dubbio.
Non ci sarà, speriamo, un tribunale ecclesiastico a costringere nuovamente Galileo all’abiura.
Noi siamo i discendenti di quegli ominidi che, in seguito a cambiamenti climatici, si erano trovati in una situazione ambientale in profonda trasformazione, con l’avanzare della savana, che presentava pericoli (era priva dell’intrico di rami che nascondeva e proteggeva i primati arboricoli) e nuove possibilità: la presenza delle carcasse di animali morti per cause accidentali o aggrediti da altri animali più forti di noi.
I nostri nonni, mutanti casuali, si avventurarono nella savana alla ricerca di cibo.
Chi vuole mettere in dubbio la teoria dell’evoluzione di Darwin (mutazione casuale, selezione naturale), si accomodi pure, però, possibilmente, sulla base di dati, misure, fermo restando che questa teoria non può essere confermata con esperimenti in laboratorio (non possiamo riprodurre i tempi dell’evoluzione); sarà sempre un’ipotesi, come la teoria della gravitazione universale di Newton: è una teoria, però ci ha consentito di arrivare sulla luna (nonostante non si possa riprodurre il sistema solare in laboratorio).
La teoria di Darwin è solo un’ipotesi scientifica, però, per esempio, ci consente di spiegare la presenza di batteri resistenti agli antibiotici negli ospedali. Non è cosa da poco, nella ricerca della soluzione di questo grave problema.
La teoria dell’evoluzione, aggiornata con le conoscenze più recenti, trova applicazione nella Microbiologia, nella Medicina, nell’Agricoltura e in altri campi.
Fu la mutazione casuale a dare ai nostri progenitori la possibilità di lanciarsi gradualmente nel nuovo ambiente, fu l’ambiente a selezionarli: checché ne dicano i vegani, una bistecca è altra cosa da una radice condita con le erbette aromatiche; tra l’altro, nel frattempo, avevano scoperto la possibilità di utilizzare il fuoco per rendere la carne più gustosa e più facilmente digeribile.
Per molto tempo si è pensato che Lucy – l’Australopithecus più famoso, che prese il nome da una canzone dei Beatles (Lucy in the sky with diamonds; nel 1974, l’anno della scoperta dello scheletro in Etiopia, ebbe grande successo) – fosse la nonna dell’umanità, ma era un errore.
Lucy (ordine Primates, famiglia Hominidae, genere Australopithecus, specie Australopithecus Afarensis) fa parte di quegli ominidi che rimasero sugli alberi (lo scheletro è datato 3,2 milioni di anni fa) e alla fine si estinsero.
I nostri diretti progenitori, genere Homo, si avventurarono nella savana alla ricerca di carcasse più o meno putrefatte.
Per arrivare alla caccia dovevano passare centinaia di migliaia di anni (e l’invenzione della licenza di caccia).
Per arrivare all’agricoltura … non ne parliamo, ci porterebbe fuori tema, ammesso e non concesso (grande Totò!) che il discorso svolto finora sia in tema con il film.
Il genere Homo (ordine Primates, famiglia Hominidae, genere Homo, specie: numerose specie estinte e una sola attualmente esistente, Homo Sapiens) compare in Sud Africa circa 2,5 milioni di anni fa.
Al genere Homo appartengono una ventina di specie, tutte estinte, tranne l’ultima, Homo Sapiens, di cui recenti ritrovamenti in Etiopia e in Marocco fanno risalire l’origine a circa 200.000 anni fa.
Un’altra specie appartenente al genere Homo ha avuto larga diffusione sulla terra, sebbene, alla fine, si sia estinta: l’uomo di Neandertal, nostro cugino (ordine Primates, famiglia Hominidae, genere Homo, specie Homo Neanderthalensis).
Questa è la parte più misteriosa della storia.
L’uomo di Neandertal e noi, Homo Sapiens, eravamo due specie distinte, stesso genere, che si erano sviluppate in momenti diversi e luoghi diversi.
Neandertal: Europa, 300.000 anni fa.
Noi, Homo Sapiens: Africa, 200.000 anni fa.
Estratto dalla scheda – Museo di Scienze Naturali – Calci (Pisa): “Il nome Neandertal deriva dalla valle, in Germania, dove nel 1856 furono scoperti i primi resti fossili. L’antichità dei resti tedeschi non fu inizialmente riconosciuta ed essi vennero attribuiti ad un uomo moderno deforme o malato. Solo successivamente, in seguito ad altri nuovi ritrovamenti, prese corpo l’ipotesi che un’umanità antica e profondamente diversa da quella moderna avesse popolato l’Europa decine di migliaia di anni prima. I neandertaliani erano probabilmente in grado di comunicare grazie al linguaggio articolato. Tuttavia, le ricostruzioni anatomiche effettuate suggeriscono la presenza di una faringe meno allungata e di una laringe localizzata in posizione più alta, rispetto a quella dell’uomo moderno. Questo tipo di organizzazione anatomica consentirebbe all’apparato vocale di articolare solo una gamma ridotta di suoni. L’uomo di Neandertal ha lasciato anche testimonianza di strutture di abitato complesso, come, ad esempio, il sito ucraino di Molodova, dove è stata rinvenuta la base di una capanna delimitata da ossa di mammuth, utilizzate come una sorta di picchetti per bloccare le pelli di copertura, e con resti di alcuni focolari nello spazio interno. L’uomo di Neandertal scompare tra i 27.000 e i 25.000 anni fa. Queste date si riferiscono agli ultimi siti abitati dai neandertaliani e localizzati nella penisola iberica e nei Balcani. Il diorama rappresenta un momento di vita quotidiana dell’uomo di Neandertal durante i brevi e tiepidi giorni estivi in un riparo sotto roccia dell’Europa mediterranea. La scena è ambientata circa 50.000 anni fa, durante una fase umida e relativamente meno fredda del periodo glaciale. La vegetazione delle coste mediterranee era caratterizzata, a quel tempo, da pino silvestre e betulla, che coesistevano con piante più tipicamente mediterranee. Per quanto riguarda la fauna, gli ungulati di medie dimensioni (come lo stambecco e il cervo) erano molto numerosi e venivano frequentemente cacciati. I ripari sotto la roccia, come quello qui rappresentato, costituivano dei bivacchi temporanei utilizzati dai neandertaliani durante le spedizioni di caccia. Il giovane seduto nei pressi del riparo sta utilizzando un raschiatoio di selce per eliminare i residui di grasso e connettivo di una pelle tenuta in tensione grazie all’uso dei denti anteriori.
Lentamente i Neandertal si diffondono, fino in Medio Oriente e in Asia Centrale.
Anche i Sapiens cominciano a diffondersi, seguendo gli erbivori, alla ricerca di cibo.
Gruppi di nostri antenati migrano verso l’Europa, altri verso l’Asia.
Risultato: l’incontro tra le due specie, diverse (DNA specifico), ma entrambe appartenenti al genere Homo.
Si incontrano, avvengono scambi culturali ma anche ibridazioni.
Le due specie sono interfeconde, danno luogo a ibridi fertili che si riproducono, mescolando il DNA proveniente dai genitori.
Questo dato, verificato confrontando il DNA ricavato dalle ossa fossili (di Neandertal e di Sapiens) ci fa venire un dubbio.
Abbiamo detto che, secondo la classificazione di Linneo, appartengono alla stessa specie gli individui che possono tra loro riprodursi e generano individui fertili.
Dunque Neandertal e Sapiens non sono specie diverse, ma varianti della stessa specie, la prima indicata, per comodità, con il nome dell’area geografica in cui avvennero i primi ritrovamenti.
Un po’ come per i lupi, di cui esistono molte varianti, per esempio: Canis Lupus Albus (lupo grigio della tundra), Canis Lupus Italicus (il nostro lupo dell’Appennino), Canis Lupus Occidentalis (il lupo grigio dell’Alaska), Canis Lupus Familiaris (il nostro cagnolino).
Alla fine i Neandertal si estinguono, ma noi portiamo nel DNA una piccola porzione, frammentata, dal 2 al 4% di DNA neandertaliano, più altre piccole porzioni di DNA proveniente dalla ibridazione con altre specie appartenenti al genere Homo, estinte, che abbiamo incontrato nel corso della nostra espansione sulla terra.
Abbiamo occupato le nicchie ecologiche di tutte le specie e delle varianti della nostra specie che avrebbero potuto competere con noi; tutte ci hanno lasciato qualche frammento di DNA.
Alla fine siamo rimasti soli.
Che cosa accadrebbe se un gruppo di ominidi, non appartenenti alla specie Homo Sapiens, fosse sopravvissuto all’estinzione in una nicchia ecologica particolare, si fosse evoluto autonomamente e si presentasse tra noi, a una festa o a un pranzo di gala?
Dal trailer di Border – Creature di confine avevo creduto che svolgesse questo argomento; per questo m’interessava molto, ma su un punto, di cui parlo dopo, sono rimasto deluso (evidentemente non conoscevo il racconto da cui il film è tratto), anche se il film è diretto molto bene, è interpretato da grandi attori e dimostra, come ho scritto all’inizio, che non è necessario ricorrere alle maschere di carnevale o di Halloween, come nell’ultimo film di Lars von Trier, per impressionare e tenere attaccato allo schermo lo spettatore, dal primo all’ultimo minuto.
Un altro regista, anche lui svedese, Rubén Östlund, aveva compiuto questa operazione di avvicinamento ai nostri antenati ominidi.
Nel film The Square (2017) c’è una scena cult.
Un uomo primitivo viene fatto partecipare a una cena di gala di uomini e donne eleganti, intellettuali alto borghesi. Un vero uomo primitivo, che assomiglia a quello del diorama del Museo di Calci riportato sopra (Neandertal).
I partecipanti all’incontro prendono la cosa, all’inizio, come un gioco di società: credono di poter rabbonire l’uomo primitivo, cercano di ricondurlo alle loro regole, ma l’uomo primitivo segue le sue regole, avverte il loro disagio, nascosto dai sorrisini imbarazzati, annusa la loro paura e la possibilità di dominarli.
Alla fine si lancia alla conquista della preda, la donna, trascinandola per i capelli.
In Border – Creature di confine (confine tra paesi, confine tra diverse specie umane) i primitivi sono due.
Nella prima parte si vede una donna, Tina, che sembra nata con una malformazione genetica.
Il corpo è tozzo, il viso decisamente brutto, secondo i nostri canoni, la forma del naso, degli zigomi, delle sopracciglia, degli occhi ha un che di primitivo.
L’impressione iniziale è che si tratti di uno dei film sulle persone fisicamente o mentalmente deformi e sulle loro difficoltà a condurre una vita pienamente realizzata (mi viene in mente The elephant man, di David Lynch).
Vediamo Tina in alcuni momenti della vita quotidiana, per esempio mentre fa la spesa al supermercato; notiamo che alcuni la guardano di sottecchi, con curiosità, quasi hanno timore di avvicinarla. Altri si sono abituati.
Appare evidente che non ha handicap mentali, ha solo un fisico tozzo, un aspetto brutto, che a me, ignorante di mitologia nordica, richiama quelle immagini dei documentari degli Angela o del National Geographic in cui sono ricostruite le fasi dell’evoluzione dell’uomo come si possono desumere dai ritrovamenti paleontologici.
Conduce una vita normale.
Ha un uomo che sembra poco interessato a lei. Il padre adottivo, che lei va a trovare in ospedale, dice che quell’uomo, il convivente di Tina, è uno scroccone; si tratta di un giovane che non lavora, si occupa solo dei suoi cani e sfrutta il bisogno di compagnia della povera donna.
Tina ha un lavoro.
Lavora alla dogana, dove utilizza la sua straordinaria capacità di “annusare” gli stati d’animo delle persone che attraversano la frontiera per scoprire i loro segreti, le loro paure, i reati che si accingono a commettere.
Non sbaglia un colpo.
Nonostante la sua eccezionale abilità, che le consente di segnalare e sventare reati atroci, questa donna è infelice, non realizzata.
È cosciente di non poter condurre una vita normale, di non poter avere accanto un uomo che la ami; si rilassa solo quando è a contatto con la natura e con gli animali selvatici, che le si avvicinano con fiducia.
Come in un buon thriller, distribuite le carte, presentati i personaggi, si comincia a giocare.
Appare il secondo protagonista del film: un uomo che ha gli stessi caratteri somatici primitivi della donna, ma una maggiore consapevolezza di sé.
Quando viene perquisito in modo approfondito, alla dogana, rivela caratteri riproduttivi femminili, nonostante l’aspetto maschile.
Il suo corpo presenta delle cicatrici; anche Tina ha una cicatrice in fondo alla schiena.
Scopriremo che queste due persone appartengono a una specie diversa dalla specie umana, una specie che viene perseguitata dagli uomini, i cui membri adulti sono rinchiusi nei manicomi e sottoposti ad esperimenti, i cui bambini sono adottati dagli umani dopo averli resi non fertili e sottoposti al taglio della coda.
Questi esseri sono troll, creature presenti nella mitologia scandinava e, in generale, dei paesi nord europei (il termine è stato ripreso nel linguaggio dei social per indicare chi interviene in uno scambio di opinioni su internet con l’unico intento di creare polemiche).
Dunque, l’autore del libro, John Ajvide Lindqvist, non fa riferimento alla teoria dell’evoluzione di Darwin e ai risultati delle scoperte nel campo della paleontologia, ma introduce un elemento tratto dalle leggende nordiche.
Devo dire che, in un film assai coinvolgente, molto ben diretto e ben interpretato, questo è un punto che mi ha convinto di meno.
Non conosco questo scrittore dal nome impronunciabile, tradotto in italiano (la raccolta contenente il racconto da cui è tratto il film si chiama Muri di carta, ed. Adelphi), specializzato, mi sembra, nel genere horror; non leggerò i suoi libri perché non mi piace questo genere letterario, sebbene abbia molto apprezzato il film, che non è un horror ma un thriller.
Riferendomi alla trama del film, trovo deludente la scelta di fare ricorso alle leggende popolari, per quanto importanti e diffuse possano essere.
In un film scarno, essenziale, minimalista, con quelle scene di vita quotidiana e quella scenografia – il corridoio della dogana, il caseggiato oggetto di indagine poliziesca, il supermercato, la casa con i mobili Ikea, il bosco nel quale Tina s’immerge per ritrovare il contatto con la natura e il colloquio con gli animali – introdurre un personaggio di fantasia, tratto dal folclore, riduce il coinvolgimento.
È come se in Dogman di Matteo Garrone, un film che ha lo stesso stile e lo stesso colore di Border, ambientato nel Villaggio Coppola, a Castel Volturno, si introducesse tra i personaggi il “munaciello”, un elemento del folclore e della mitologia popolare napoletana che può essere, in un certo senso, il corrispondente del troll.
Molto più interessante sarebbe stato un riferimento alle specie di ominidi che l’Homo Sapiens ha incontrato nel corso della sua evoluzione, con le quali ha realizzato scambi di DNA, ma che ha spinto inesorabilmente verso l’estinzione.
La domanda angosciosa che, comunque, il film pone allo spettatore è questa: se ci capitasse di incontrare individui appartenenti a una specie di ominidi non completamente estinta – un gruppo che ha trovato una nicchia ecologica isolata nella quale è riuscito a sopravvivere e ad evolvere indipendentemente dall’Homo Sapiens, magari conservando un rapporto di maggiore empatia nei confronti degli altri animali – accetteremmo di condividere la terra con questi esseri intelligenti o cercheremmo di sterminarli, rinchiudendo gli adulti nei manicomi o in luoghi analoghi di segregazione e sottoponendo i bambini di quella specie ad interventi chirurgici in modo da farli diventare il più possibile simili a noi?
Io credo che la risposta a questa domanda si trovi nella storia evolutiva dell’Homo Sapiens: noi abbiamo spinto all’estinzione qualunque specie di ominide (genere Homo) apparsa sulla terra e incontrata nel corso della nostra evoluzione e stiamo spingendo all’estinzione molte specie animali che non abbiamo addomesticato e ridotto ai nostri interessi.
Probabilmente faremo sopravvivere i cani ma estinguere i lupi.
L’Homo Sapiens è una specie che fa il vuoto attorno a sé e tende a considerare le differenze somatiche e/o culturali al proprio interno motivo sufficiente per distruggere intere popolazioni (gli indios dell’America latina, gli indiani del Nord America, gli aborigeni australiani, vari gruppi di popolazioni africane, tra il 1915 e il 1916 il genocidio degli armeni in Turchia, nella Germania nazista l’olocausto degli ebrei, ecc. ecc. ecc.), fino a che, a furia di accentuare le differenze, di cercare la “razza pura”, di cercare di mettere la terra e gli altri viventi al proprio servizio, finirà col provocare la inevitabile autoestinzione.