The dead don’t die (Jim Jarmusch) – 19 giugno 2019 h 21.00
Cinema Teatro Odeon Firenze – piazza degli Strozzi
Un’altra vita [Mug] (Malgorzata Szumowska) – 20 giugno 2019 h 17.50
Cinema Spazio Uno Firenze – via del Sole, 10
Suspense (alta tensione: thriller e/o horror)
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Due horror: uno di un regista cult (per me) e uno di una regista sconosciuta (da me).
“The dead don’t die”, regia di Jim Jarmusch; “Un’altra vita – Mug”, regia di Malgorzata Szumowska.
Nessuna obiezione alla rappresentazione del male sullo schermo; anzi: credo che il cinema debba rappresentare, come l’arte in genere, non solo il bene, ma anche il male presente nella nostra vita e nella nostra mente.
Però est modus in rebus: ci vuole misura nelle cose; in altri termini: c’è modo e modo.
Odio le rassegne di trucchi cinematografici horror, analogici o digitali; non sopporto gli attori truccati per sembrare mostruosi, i corpi sventrati, i manichini ambulanti su femori, tibie e peroni scarnificati, le mascelle e le mandibole sdentate e minacciose, le cavità orbitali fornite di un solo occhio rossastro e un altro pendulo, le lunghe falangi che stringono (non si sa come, dal momento che sono prive di muscoli) il collo delle vittime fino a soffocarle.
Tutto quel materiale plastico, non riciclabile perché fortemente intriso di sostanze coloranti, dovrebbe dare l’idea della decomposizione e, invece, fa pensare che il regista non abbia mai visto un corpo decomposto. Se vuole imparare, vada nei cimiteri dove si pratica l’esumazione dei cadaveri dopo tre o cinque anni dal seppellimento, chieda lumi al becchino addetto all’operazione. Meglio ancora: si faccia assumere come assistente volontario; avrà delle sorprese, capirà che cosa rimane di un corpo seppellito nella terra fresca, vedrà come sono fatti i resti umani.
Poiché vi occupate di cadaveri, l’esperto è il becchino, che in napoletano si chiama schiattamuortə, una parola che riassume in sé un film horror.
L’eccesso di immagini finte che, secondo le intenzioni, dovrebbero impressionarci, rivela un desiderio meschino. Il regista vorrebbe mostrarci la sua potenza, la sua capacità di influire sul nostro stato d’animo usando mezzucci.
Me l’immagino nascosto in sala spiare le nostre reazioni, fregarsi le mani se diamo segni di tensione o di paura.
Con me non può riuscire nel suo intento: cerco di non farmi influenzare troppo dalle cose che vedo.
Giovanni 20,29 – Gesù disse a Tommaso: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» – (CEI 2008).
Al posto di Tommaso avrei risposto: «Senti Signore, chiariamo le cose una volta per tutte; io non solo non credo a ciò che non vedo, ma ho forti dubbi anche su ciò che vedo, perché so com’è facile ingannare i sensi. Dunque – non t’incazzare! – resto nel dubbio. Ti chiamo Signore per educazione, noto una certa somiglianza con il morto, ma, onestamente, le piaghe non sono una prova certa. La mia richiesta di metterci il dito era solo un modo di dire, un’espressione retorica. Mettere realmente il dito nella piaga mi farebbe impressione e non risolverebbe il problema. Dammi una prova certa, vedi tu quale possa essere convincente. Fammi sentire che cosa dice la madre, fammi sentire i discepoli che andavano a Emmaus e per tutta la strada non ti hanno riconosciuto, ti hanno accolto in casa e non ti hanno riconosciuto, hanno preparato la cena e non ti hanno riconosciuto. Solo quando ti hanno visto spezzare il pane si sono detti: è Lui. Troppo poco per me. Fino a pochi giorni prima vivevano insieme al defunto. Com’è che non ti hanno riconosciuto? Anch’io, guardandoti, sono assalito dai dubbi. Quasi temo di riconoscere in te il caro amico, il Maestro morto sulla croce.
Parlami di te, ma ti avverto: sarà difficile convincermi. Non ti offendere; di questi tempi bisogna stare attenti, ci sono tanti illusionisti in giro che approfittano degli ingenui, dei creduloni. Non è il mio caso! Con tutto il rispetto, io resto con i miei dubbi».
Il Signore avrebbe risposto: «Tu non vuoi toglierti i dubbi».
Tommaso: «Bravo Signore! Hai colto nel segno! Le certezze mi fanno paura! Quanti crimini sono stati commessi da chi aveva, o mostrava di avere, certezze! Ora basta con i punti esclamativi e mangiamo una buona zuppa di pesce. Scusa Signore, per cortesia, vuoi moltiplicare il pane, i pesci e, giacché ci sei, anche il vino? Era la specialità del defunto, lo faceva con una facilità sorprendente. Questo sarebbe un segno convincente».
Non credo che un “regista di filmaggi de paura” (Guzzanti) riesca a impressionarmi con i suoi giochini macabri sullo schermo. Il trucco c’è e, spesso, si vede o si immagina.
Se vuole impressionarmi il regista dev’essere capace di agire sulla mia immaginazione, più che sulla mia vista; deve spingermi a cercare i mostri dentro di me, come sapeva fare l’amico panzone (impossibile non citarlo in continuazione!) che ci ha messo nella memoria il ricordo indelebile di una donna nuda accoltellata ripetutamente mentre fa la doccia (Psycho, 1960). Eppure, se riguardiamo con attenzione la sequenza di immagini, se le scorriamo una a una, ci accorgiamo che la nudità della donna, e anche le coltellate, sono un prodotto della nostra immaginazione: sullo schermo non ci sono. Il film l’abbiamo fatto anche noi.
Di solito un horror mi piace se si prende in giro da solo.
Capolavori del genere: Per favore non mordermi sul collo, di Roman Polansky, Frankenstein Junior, di Mel Brooks. Anche La famiglia Addams mi piace molto, in tutte le sue versioni. Recentemente ho trovato divertente Una famiglia mostruosa, con Lillo e Massimo Ghini, regia di Volfango De Biasi.
The dead don’t die si inserisce bene nel genere horror comico in quanto tratta con mano leggera un argomento pesante.
Merito del regista, che ha sempre dimostrato una vena umoristica stralunata, evidenziata dalla presenza e dalla voce roca di Tom Waits.
Jim Jarmusch ha sperimentato generi diversi; ricordo volentieri, quasi con affetto, il suo primo lungometraggio: Stranger Than Paradise (1984).
Mi piacque molto anche Down by law (Titolo italiano: Daunbailó) in cui Roberto Benigni interpretava la maschera che portava in giro in quegli anni (1986).
Era la prima volta che approdava in un film americano e parlava un inglese maccheronico molto divertente.
Con lui c’erano John Lurie e, appunto, Tom Waits; ricordo alcune scene in cui si fondeva la comicità surreale dei tre e il risultato erano quelle gag irresistibili di amici toscani interpretate da due attori che non hanno la calata fiorentina (inglese americano non doppiato), ma si facevano coinvolgere da Benigni, dopo un’iniziale riluttanza, nei nonsense, nei giochi di parole, nelle assurde tiritere, fino a condividere la sua allegria e la sua gioia di vivere. Alla fine la cella del carcere americano in cui si svolgono diverse scene si trasforma in una cella di Sollicciano, più o meno.
L’argomento di The dead don’t die è il più classico dei film horror: i morti non sono morti, non muoiono, come dice il titolo del film (al singolare); siccome non muoiono – pare assodato – quando il polar fracking arriva a disturbarli escono dalla tomba.
Non si capisce quale fastidio possa dare ai morti l’estrazione del gas dalle rocce porose mediante frantumazione (polar fracking). Evidentemente gli sceneggiatori non credono alla morte, che sarebbe sempre solo apparente.
Se fosse vero che i morti non muoiono, si dovrebbe smettere la vecchia abitudine di seppellirli sotto terra; questo costume sembra fatto apposta per far girare ai registi di horror la solita scena delle braccia protese fuori del terreno. Se si inceneriscono i cadaveri, per esempio in India, questa scena non ha senso o diventa molto più astratta (la cenere si trasforma nel corpo, non decomposto ma perfetto) e non c’è più bisogno del gran buco accanto alla lapide, con il terreno spalato da qualcuno che non può essere il morto.
I morti escono e, così come stanno, in pessime condizioni, con gli abiti stracciati, impresentabili, vanno in cerca di viventi da mangiare e delle cose che amavano da vivi: il caffè, lo chardonnay, la chitarra, il CD, il WiFi; i bambini defunti cercano i giocattoli.
Amano le parti molli dei viventi, forse perché hanno pochi denti, e li assaltano a morsi, con le mascelle scoperte e le mandibole pendenti; poi li abbandonano.
I viventi catturati, soffocati, mangiati, morti anch’essi, si risvegliano subito dopo e vanno in cerca di altri viventi. Non finisce più.
Dalla parte degli zombi c’è il numero, perché singolarmente sono legati nei movimenti.
Per fermarli e farli morire definitivamente, si spera, bisogna staccargli la testa in qualunque modo: con una fucilata, con la spada, con l’accetta o con l’attrezzo che si usa per potare i pini.
Lo dicevo io che la soluzione del problema degli zombi è la cremazione!
Strano non ci abbiano pensato nel paese di Centerville, ma forse non hanno fatto in tempo.
Altre cose strane accadono, dovute sempre, dicono nei telegiornali, al fracking.
Lo sconvolgimento del sottosuolo produce terremoti – i geologi dovrebbero dirci se c’è relazione di causa e effetto – ma come si spiega l’inversione tra il giorno e la notte? Come si spiega il cattivo funzionamento degli orologi e la fuga degli animali?
Non dobbiamo porci queste domande, perché il film vuole solo essere divertente ed è molto più leggero della canzone che l’accompagna, il cui testo sembra evocare un destino tragico definitivo per tutti.
Le scene horror, inserite in situazioni diverse, non arrivano ad annoiare per la ripetizione, come di solito accade in questo genere di film (visto uno zombi, visti tutti).
Il regista gioca con l’argomento senza prendersi troppo sul serio e senza la pretesa di lanciare un messaggio di salvezza, anzi con un forte pessimismo di fondo.
Gli attori sono perfettamente in sintonia con l’andamento stralunato che caratterizza i film di Jim Jarmusch.
Bill Murray interpreta il capo della polizia di Centerville. È un vecchio tranquillo, pacato: affronta le cose cercando di non drammatizzare, finché è possibile, e si pente di non essere andato in pensione. Da pensionato si troverebbe nella stessa situazione, ma quando la realtà ti travolge non sai a cosa attaccarti, vorresti essere fuori dal mondo.
Se il mondo è popolato da morti viventi, se neanche la morte dona la tranquillità e il riposo definitivo: fermate il mondo, voglio scendere!
Adam Driver è il giovane agente, freddo, razionale, impassibile; capisce subito il fenomeno, sa che bisogna tagliare le teste e distribuisce fendenti decisi tra i morti viventi, da buon giocatore di baseball; sa, fin dall’inizio, che «finirà male».
Chloë Sevigny è la giovane agente impaurita; ha una crisi di nervi e si abbandona quando vede tra gli zombi che vogliono divorarla la cara nonna appena morta, la nonna con la quale aveva un rapporto di grande affetto.
È forse la scena più drammatica, anzi l’unica veramente drammatica.
Tra gli abitanti del paese c’è anche il razzista che porta sul berretto la scritta “make America white again”, un peggioramento dello slogan di Trump.
Fa una brutta fine, come gli altri: buoni e cattivi, innocenti e colpevoli, tutti muoiono, nel solito modo. Che succederà quando tutti i viventi saranno mangiati? Fine del mondo. The End. Come nei vecchi film (leggevamo: «te-end»).
Forse si salvano tre bambini intelligenti, ma non siamo sicuri di questo; si sono nascosti, non sappiamo se saranno scoperti. La ragazzina ha detto: «Seguitemi, conosco un posto». Fino alla fine non ne sentiamo più parlare. Dove si sono nascosti? Si saranno salvati?
Non si sa se c’è un’arca di Noè su cui salire per salvarsi, non si sa se vale la pena salvarsi, dal momento che una cosa così brutta (essere divorati dalla nonna) è capitata a qualcuno e può capitare a qualcun altro, prima o poi.
Questo è il pessimismo di Jim Jarmusch; i naufraghi salvati da Noè avevano una promessa e un simbolo (l’arcobaleno) per ricominciare; i viventi erano stati puniti da Dio per i loro peccati. Il racconto aveva un ottimismo di fondo: Dio è terribile e ingiusto (fa affogare anche i bambini), però l’uomo può sfuggire alla sorte dei “cattivi”, può appellarsi a un patto, a una promessa.
Gli abitanti di Centerville sono puniti non da Dio ma dal polar fracking. Se smetteranno di frantumare le rocce porose per ricavarne il gas, qualche altro fenomeno potrà risvegliare i morti, perché “the dead don’t die”. Siamo nel pessimismo più radicale, nella disperazione totale riguardo alla condizione umana.
Forse si salverà l’eremita, interpretato con divertimento da Tom Waits: non viene assalito dagli zombi e osserva tutto con il cannocchiale; si salva, ma come vive?! Vale la pena salvarsi se poi si è costretti a vivere in quelle condizioni?
C’è l’intervento di un’astronave da cui scende un’extraterrestre esperta di arti marziali e devota a Buddha. È la nuova direttrice del cimitero: l’unica che si diverte con i morti e sa difendersi dagli zombi.
Buddha è un extraterrestre. Mah! Questa è la parte che mi perplime (sempre Corrado Guzzanti).
Gli attori ogni tanto escono dai personaggi con scambi di battute molto divertenti.
All’inizio
Capo della polizia: «Com’è che ho questa canzone nelle orecchie, che la ricordo tutta a memoria?»
Agente: «Per forza, è la colonna sonora del film.»
Verso la fine
Capo della polizia: «Mi spieghi come mai, fin dall’inizio, hai detto che sarebbe finita male?»
Agente: «Ho letto il copione.»
Capo della polizia: «Hai letto tutto il copione?»
Agente: «Certo.»
Capo della polizia: «A me Jim ha fatto leggere solo la mia parte. Che stronzo!»
La storia finisce male, come l’agente, avendo letto il copione, aveva previsto fin dall’inizio.
L’immagine associata a questo commento non è tratta dal film di Jim Jarmusch, ma da un bellissimo film polacco: “Un’altra vita – Mug”, della regista Malgorzata Szumowska.
Unisco i due commenti perché i due film, molto diversi, hanno un elemento in comune.
Mug significa “brutto muso”.
Il film racconta di un giovane polacco che vive nella Polonia rurale, in un villaggio nel quale permane una concezione della religione cattolica che, fortunatamente, è sparita in altre parti d’Europa, forse del mondo.
In questo villaggio la gente va regolarmente a confessarsi dal prete per scaricare la coscienza e farsi assolvere, continuando a vivere nell’egoismo e nella chiusura mentale.
Il prete è un tipo strano: si eccita ascoltando i peccati di una giovane donna (non è strano che si ecciti, è normale, è strano che continui a fare il prete); raccoglie i soldi tra i fedeli per costruire la statua di Cristo più alta del mondo (soldi buttati, pare che realmente sia stata costruita, come si legge nei titoli di coda).
Il giovane Jacek non si adatta alla vita ipocrita del villaggio; sogna di andare via.
Veste come gli pare, porta i capelli come gli pare, ascolta la musica che gli piace, non condivide i meschini sentimenti, i valori tradizionali della maggior parte degli abitanti del villaggio e degli altri membri della sua famiglia (tranne la sorella, l’unica che lo capisce realmente).
È un contestatore tranquillo; sogna di andare via.
Intanto lavora, come tanti, nel cantiere dove si costruisce la statua.
Subisce un grave incidente che deforma il suo volto; è sottoposto al primo trapianto del viso effettuato in Polonia.
Qui è meglio inserire il solito avviso: in questi commenti si racconta la trama; chi non gradisce interrompa pure la lettura e non rompa le scatole con lamenti e proteste degne di miglior causa, che regolarmente cancellerò senza perdere tempo a rispondere.
Il volto di Jacek è gonfio, un occhio quasi cieco, la bocca deforme, deve portare la dentiera, la sua voce è quasi incomprensibile: non ha più la faccia che aveva prima del trapianto.
Viene dimesso dall’ospedale e torna nel villaggio. Per un po’ viene festeggiato (l’intervento subìto ha dato lustro alla nazione), la famiglia è intervistata dalla televisione.
È ben accolto, anche se non si fa cenno alle condizioni di lavoro, alla mancanza di protezioni, ai suoi diritti calpestati.
Il sistema sanitario, nella Polonia ultra capitalista e conservatrice, dopo averlo salvato lo abbandona, non gli riconosce il diritto a una pensione e non gli fornisce gratuitamente i medicinali di cui ha ancora bisogno.
In un primo tempo gli abitanti del villaggio contribuiscono, con una colletta organizzata in chiesa, a dargli una mano, poi, gradualmente, per via del suo volto deforme e del suo atteggiamento (è il vecchio contestatore), lo considerano sempre più estraneo e rifiutano di aiutarlo.
La ragazza che stava per sposare lo abbandona.
Addirittura la madre rivela al confessore di non amarlo più, di considerarlo un estraneo. Prima dell’incidente sperava che quel figlio le desse dei nipoti; finita questa possibilità, è finito anche l’affetto. D’accordo con il prete, lo sottopone a un inutile esorcismo.
Quando muore il nonno, l’unico della famiglia, oltre alla sorella – fortemente condizionata dal marito – che non ha cambiato atteggiamento nei suoi confronti, quando gli eredi cominciano a litigare per spartirsi il terreno del nonno, Jacek va via, non sappiamo dove. Prende il pullman che lo porta via dal villaggio, forse per tentare di realizzare il sogno di libertà che coltivava all’inizio.
Questo film mi è sembrato collegato a The dead don’t die, anche se è poco horror e non è comico.
Il “mostro” non è un mostro, è sempre lui, il ragazzo contestatore di prima; gli abitanti del villaggio sono ridicoli, stupidi, meschini, ipocriti: sono loro i mostri. Il Cristo gigantesco con le braccia aperte e la testa piegata ad angolo sembra un vigile urbano che regola il traffico: non evoca un’immagine religiosa ma un’immagine comica.
Comicità involontaria: delle autorità, dei preti, dei devoti abitanti del villaggio.
Anche Jacek, come i morti che si sono risvegliati nel film di Jim Jarmusch, è uno tornato in vita dopo essere quasi morto, in un certo senso è uno zombi. Qui finisce il collegamento tra i due film.
I morti di Jarmusch sono aggressivi e, alla fine, vincono; il povero Jacek può solo scappare via. Può solo
«Andare via lontano / Cercare un altro mondo / Dire addio al cortile / Andarsene sognando»
(Luigi Tenco, Ciao amore ciao)