11 aprile 2020
Hart Island, Bronx

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
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Ce n’era voluto per trovare il riposo, non ancora eterno, qui, in quest’isola al largo del Bronx, in questo rettangolo di terra, dentro a una bara bianca di legno scadente!
Non è facile rielaborare i ricordi di una vita difficile, ripensare i tanti avvenimenti, le persone che ci hanno lasciato un segno.
Un segno qualsiasi, buono o cattivo: un po’ di calore, una carezza, una ferita, una cicatrice.
Non è facile ricordare tutto: l’insieme e i dettagli, sapendo come è andata a finire. Ripercorrere ogni secondo al rallentatore e, a furia di riviverlo, cancellarlo; trovare il distacco da tutto ciò che si è vissuto e rassegnarsi a lasciare questo universo, a scomparire dall’unica dimensione che si conosce, senza sapere, perché ancora non si sa, se c’è altro o il nulla.
Un lungo percorso è necessario per avviarsi, gradatamente, verso la pace eterna che si augura ai defunti.

Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis.
Requiescant in pace.

Il riposo, la pace eterna dona loro, Signore.
Più complicata a capirsi la luce perpetua, che ancora non conosco.

Gli ultimi anni di vita erano stati pieni di paura, di sofferenza, di solitudine. Non ricordavo che cosa fosse la pace.
L’agonia non finiva più.

Mi ritrovai su quel tavolo di marmo all’obitorio, dove mi lasciarono mentre avviavano le ricerche dei parenti, di qualcuno disposto a pagare le spese per il funerale. In tasca non avevano trovato niente, sul conto bancario poca roba.

Mi dispiaceva il pensiero che le autorità trovassero i miei fratelli; certamente avrebbero pagato, non sarebbe stato necessario insistere, però sarebbe venuta allo scoperto una parte della mia vita che preferivo fosse ignorata da loro, fosse seppellita insieme a me.
Avrebbero sofferto, se l’avessero conosciuta, ma anche trovato la conferma dell’opinione di mio padre: è un perdente, vive tra le nuvole, è un buono a nulla.
Mi sembrava che avesse piacere a pensare male di me, a sottolineare la vacuità dei miei sforzi, a constatare i miei insuccessi.

Ero il ribelle, l’unico dei figli che aveva osato affermare indipendenza, di più, indifferenza rispetto ai valori su cui il “capo di casa” aveva costruito la famiglia. Tutti cercavano di non contrariarlo, tranne me. Mascheravano la paura con l’affetto. Dicevano: è buono con noi, non dobbiamo deluderlo, e mi guardavano con aria di rimprovero.

Uno dei miei fratelli si era fatto prete, un altro faceva il medico, un altro l’avvocato. Da me pretendeva che mi occupassi di economia, per aiutarlo nella gestione degli affari; mi aveva fatto trovare la chitarra con le corde strappate. Da allora mi sono abituato ad attribuirgli la responsabilità della mia mancanza di talento musicale. Non volevo rassegnarmi, accettare i miei limiti. Era così comodo prendersela con lui! Abbandonavo gli esercizi perché le dita mi facevano male e pensavo: è colpa sua. Pensavo: mi ha impedito di imparare quando ero adolescente e avevo il tempo e la voglia. È colpa sua se mi è passata la voglia. O, forse, non avevo talento. Non lo saprò mai.

La sorella più giovane era stata data in sposa a un possidente privo di fascino. A me era sembrato un rapimento, perché lei non era in grado di ribellarsi o di porsi il problema della mancanza di amore per quell’uomo stupido, ricco di famiglia. Quando il prete aveva perduto la vocazione, poi la fede, non aveva osato cambiare vita. Si era limitato a ingrassare.

Riuscii a mettere insieme un po’ di soldi, me n’andai di casa. Con lui non potevo che essere un perdente.
I soldi finirono, la situazione divenne complicata. Mi accorsi di essere un perdente anche senza di lui.
Cercai una soluzione, ma non riuscivo a impegnarmi; sostituivo l’impegno con la furbizia. Ero fatto così.
Quando rifacevo le camere ed ero da solo per molte ore nei lunghi corridoi di un grande albergo, cercavo un angolo nascosto in cui stare seduto, con le gambe distese, a riposare, a fumare, a dormicchiare. Poi facevo in fretta il resto del lavoro. Mi cacciavano. Cambiavo albergo.
C’erano tante occasioni nella grande città, ma io non riuscivo a coglierne una. Le cose mi sfuggivano di mano. Le lasciavo andare.

Un bel giorno la vita mi apparve in tutto il suo squallore definitivo. Non mi sfiorò il pensiero di chiedere aiuto, di tornare a casa: preferii straziarmi con la malinconia, tra veglia e sonno, preferii mangiare insieme ai porci, per non affrontare la conferma del giudizio di mio padre.
Il vitello grasso dovette costare caro al figliol prodigo! Troppo caro per me.

Rivedevo il viso di mio padre, la sua espressione soddisfatta quando ripeteva: «inconcludente!», guardandomi negli occhi, come per convincermi. Gli riusciva facile convincermi e, chissà perché, ci godeva. Forse perché avevo osato contraddirlo.

Mi raggiunse un telegramma: «Papà grave, torna se vuoi rivederlo vivo». Rimasi frastornato, non mi capacitavo: come hanno fatto a trovarmi? Non voglio tornare così. Questo è l’ultimo tiro mancino del vecchio maligno: morire quando ancora i miei sogni sono lontani dal realizzarsi, guardarmi anche dal letto di morte, dopo morto, da dentro alla bara, da sotto terra, come si guarda un perdente, un figlio che ti ha deluso, che non è stato all’altezza delle tue legittime aspettative.
Decisi: non gliela do vinta, non è ancora il momento di tornare.
Sapevo che il momento giusto per tornare non sarebbe mai arrivato, cambiai zona per far perdere le mie tracce e smisi di fantasticare. Piano piano mi adagiai nella pigrizia, mi accontentai di lavoretti da inconcludente.

Nell’obitorio arrivavano strani cadaveri sui tavoli di marmo accanto al mio.
Ricordo una donna vestita da zingara, i capelli neri, lunghi, sporchi; una macchia di sangue raggrumato sulla guancia destra. Sembrava una strega.

Non che mi facesse paura, però, dopo le tante situazioni strane che avevo vissuto negli ultimi anni, avrei preferito, in quella stanza illuminata debolmente da una luce gelida, la compagnia di qualcuno che mi richiamasse ricordi sereni, i colori di mia madre, che la rassegnazione aveva portato via troppo presto.
La solitudine mi perseguitava anche dopo morto, su quel tavolo di marmo, con un cartellino infilato sull’alluce destro.
Pensai: se muore uno a cui hanno amputato i piedi, dove infilano il cartellino?
Così, per passare il tempo, facendo ricorso al vecchio rimedio: l’umorismo.

Nei giorni seguenti altri corpi furono stesi sui tavoli vicini; poi due uomini mi sollevarono, m’infilarono nella cassa di truciolato, mi portarono su quest’isola, mi seppellirono accanto ad altri abbandonati, non richiesti da nessuno, senza funerale; se ne andarono.

Finalmente cominciò la calma, il silenzio, rotto solo dalle onde del mare, dal vento, dalla pioggia, dai gabbiani.

Requiescant in pace.

La pace andava e veniva, secondo dove pescava il ricordo, le mie reazioni erano vive, la rabbia presente.
Ogni tanto tornavano due, tre uomini: seppellivano alcune bare; se ne andavano.

Ritornava la calma; riprendevo il percorso che piano piano mi avrebbe portato alla pace duratura, alla pace eterna.

All’improvviso: l’inferno (per modo di dire).

Camion carichi di bare arrivano in continuazione.
Uomini vestiti di bianco, guidati da uomini vestiti di nero, scavano, scavano, seppelliscono le bare in fila, attaccate una all’altra per risparmiare spazio. Tracciano lunghi solchi rettangolari per preparare il terreno. I morti sono frastornati, increduli, non come me, che, in fondo, me l’aspettavo da molto prima che accadesse, e, in qualche modo, ero pronto. Questi si guardano intorno smarriti e si domandano: dov’è mio figlio? Dov’è mia moglie? Dov’è mio marito? Dov’è il prete? Dove sono gli amici? Perché non suonano le campane?

Altri camion arrivano: altre bare, altri uomini, altro frastuono, altri seppellimenti. Non finisce più.
Non c’è più pace.