(20 aprile 2020)

Sigmund Freud – Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio – in FREUD OPERE COMPLETE (Ed. Bollati Boringhieri)

Il libro fu pubblicato nel 1905; nello stesso anno uscirono Il caso di Dora e Tre saggi sulla sessualità, fondamentali per fissare le basi teoriche della tecnica psicanalitica. L’interpretazione dei sogni era stato pubblicato nel 1900.

Vediamo se è possibile riportare questo saggio, severo come il suo autore, severo nonostante l’argomento, alla nostra esperienza; proviamo a fare un po’ di psicoanalisi dei poveri.

Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio è diviso in tre parti.

A. Parte analitica

B. Parte sintetica

C. Parte teorica

Le tre parti sono divise in capitoli, che vanno per conto loro, nel senso che la numerazione dei capitoli è indipendente dalle parti a cui appartengono.

A. Parte analitica

Cap.1 Introduzione

Introduzione ricca di citazioni. Serve per definire l’argomento: ogni tre righe una citazione. Sembra fatto apposta per scoraggiare la lettura.
Verrebbe voglia di dire: Sigmund, rilassati! Stai costruendo un castello. È inutile impegnarti a dimostrare che le fondamenta sono solide! Forse è un castello di carte, ma chi se ne frega! A noi poveri piacciono proprio i castelli di carte.

Freud afferma, verso la fine dell’Introduzione, che sceglierà gli esempi di motti di spirito che lo hanno più colpito nel corso della vita e che lo hanno fatto ridere di più. Questo è interessante: scopriremo che cosa faceva ridere il fondatore della psicoanalisi, ammesso che sia disposto a raccontarcelo con sincerità, una dote che credo non gli appartenesse.
Molta sincerità verso se stessi credo sia sempre bilanciata dalla scarsa sincerità verso gli altri. Naturalmente, questo è un elogio del dottore: nessuno è più noioso di quelli che credono di dire la verità o pretendono di essere sinceri.

Cap.2 La tecnica del motto di spirito

Qui Freud ritrova il suo stile; la lettura è piacevole.
In questo capitolo cerca di fissare, utilizzando molti esempi – in tedesco, in francese, in inglese, in italiano – la tecnica, i meccanismi alla base del motto di spirito.

Il primo meccanismo è la condensazione linguistica: la riduzione di due parole o espressioni che esprimono concetti diversi in una struttura composta che li contiene entrambi.

Esempio: avendo il re Leopoldo II del Belgio una relazione con Cléo de Merode, era invalsa l’abitudine di riferirsi al sovrano chiamandolo Cleopoldo. Questo nome suscitava ilarità. Evidentemente metteva insieme due informazioni: il nome del sovrano e la sua relazione amorosa. Il comico viene dalla deformazione del nome e dall’allusione espressa dalla deformazione.

I sudditi si danno di gomito, si fanno l’occhiolino, apertamente ridono, mentre storpiano leggermente il nome del sovrano.

Domanda: questo modo arguto di riferirsi al re del Belgio contiene un giudizio morale? Non credo. Il motto di spirito si riferisce in modo neutrale alla morale corrente, senza farla propria. Si collega anche ai pregiudizi diffusi, li fa suoi, ma solo per la durata del racconto e della risata o del sorriso. Descrive le idee che circolano nel momento in cui viene prodotto e mandato in giro.
Infatti le barzellette più divertenti sono spesso politicamente scorrette, imbarazzanti. Le raccontiamo perché ci fanno ridere, ci gratificano, e non comportano la sottoscrizione delle idee che esprimono. Potremmo dire con Sigmund: il SuperIo ci dà una pausa.

Una volta ho visto in televisione una parodia di Angelo negro, la canzone cantata da don Marino Barreto Junior, parodia raccontata da Vittorio Gassman e Paolo Villaggio. Prendeva in giro il povero negro (così si diceva allora) immaginando la risposta del pittore, annoiato dalla richiesta ripetuta (fammi un angioletto nero … eddai! Me lo fai quest’angioletto nero?).
Faceva molto ridere, ma non era un segnale di razzismo dei due attori o dei telespettatori, fra i quali c’ero anch’io, che, anziché indignarsi, si divertivano. Su questa parodia girava anche uno sketch con Gianni Agus e, forse, Tognazzi, se ricordo bene (mi riferisco a lontani ricordi televisivi), ma il racconto di Gassman e Villaggio, finti indignati con la signora che rideva alle loro battute, era più divertente.

La struttura composta può essere un’invenzione verbale priva di significato al di fuori del motto di spirito, come in questo caso, o può avere un suo significato, oltre a quello che assume come risultato della condensazione. È più breve delle parole o delle espressioni da cui deriva. Il motto di spirito è caratterizzato dall’abbreviazione, dice Freud. Vogliamo chiamarla sintesi?

Il risparmio di energia psichica prodotto dall’abbreviazione genera piacere; questo concetto dovrà essere approfondito, suppongo, però è chiaro che se spendo meno energia per ottenere lo stesso risultato ho una sensazione di piacere. Il bilancio energetico è importante per ogni aspetto della vita individuale e collettiva, è legato alla sopravvivenza, individuale e collettiva.

Quando si ragiona su questi argomenti si ha la sensazione di girare tra le sale di uno di quei castelli che alcuni si costruiscono montando pezzettini di cartone comprati ogni settimana in edicola. La meraviglia, l’ammirazione, sono dovute al solidissimo impero governato da un castello di carta, dalla sua complicazione, che ha prodotto fortune e, meraviglia delle meraviglie, anche guarigioni o, almeno, miglioramenti della condizione di persone sofferenti o la sensazione di essere migliorati, o, per alcuni, l’illusione di stare meglio. Non c’è la controprova e il castello, nonostante la sua complicazione, sembra sempre sul punto di crollare: basta togliere un pezzettino di carta. E non si completa mai. Per spiegare la voglia che ci spinge ogni settimana ad andare in edicola con un po’ di ansia (troveremo qualche altro pezzettino?) c’è una sola parola, una parola che dalle scienze è bandita: fede.
È la parola che mi ripeteva la medium nel corso dell’unica seduta spiritica a cui ho partecipato nella mia vita (eravamo giovani fuori sede un po’ scemi e vivevamo in una specie di convento, il posto più adatto, ci aveva detto la medium, a una seduta spiritica). Fingevo indifferenza e scetticismo e, per mettere alla prova la medium, facevo domande su cose che la medium (nella realtà la moglie di un collega) non poteva conoscere (come si chiama il mio bisnonno materno?).
Il bicchiere girava, girava, e si fermava sempre sulle quattro lettere della parola fede. Ammetto che mi sembrava si muovesse da solo, nonostante le nostre dita e la mia resistenza passiva. Ammetto anche, quasi vergognandomene, che mi fece piacere quando la moglie del collega che faceva da tramite tra i cinque o sei sfaccendati e l’altro mondo disse: la duchessa ti ha preso in simpatia. Riuscire simpatico a una duchessa di non so quale secolo, nonostante non mi desse un segno, o almeno un indizio, della sua esistenza in questo mondo o nell’altro, mi sembrò una cosa buona.

Torniamo alla psicoanalisi.
Mi fa pensare, fatte le dovute proporzioni, alla chiesa cattolica. Se si va alle origini ci si meraviglia per la vaghezza delle testimonianze, per la leggerezza delle basi (addirittura i vangeli in alcuni punti si contraddicono). Eppure: che grande impero è derivato da queste origini!
È indubbio che alcuni “miracoli” sono realmente avvenuti, persone sofferenti sono realmente guarite in modo inspiegabile, grazie all’intercessione di un santo che ha svolto la stessa funzione dello psicanalista: immobile, nessuna interazione con il fedele orante, nessun segno di partecipazione al suo dolore, di disponibilità a fare la sua parte. Il fedele paziente – in ginocchio davanti alla statua o disteso sul lettino, o sprofondato nella poltrona – prega, racconta la sua sofferenza. Ogni tanto succede. Miracolo!
È guarito per l’intervento del santo o per l’intervento dello psicanalista? Non lo sappiamo. Forse le parole della preghiera, in un caso, le parole del colloquio ripetuto per molto tempo, con cadenza fissa, hanno mosso qualcosa nel credente paziente. Questo movimento ha determinato la guarigione.

Torniamo ai motti di spirito.

Il piacere, nel caso di Cleopoldo, è legato all’intento allusivo presente in questo modo di dire, all’intelligenza sottintesa tra chi parla e chi ascolta. Qui non si tratta di dare un’informazione: il motto di spirito può essere capito solo da chi possiede l’informazione. Perché possa divertire ci dev’essere una condivisione e un accordo: la condivisione dell’informazione e l’accordo riguardo a un certo grado di ostilità nei confronti del re.

Non credo che questo motto di spirito si racconterebbe al re o a un suo fedele suddito; probabilmente non lo divertirebbe, ma lo irriterebbe. A meno che il re fosse disposto a uscire momentaneamente dai suoi panni e mettersi nei panni dei sudditi poco fedeli o indifferenti nei suoi confronti; un po’ come Andreotti e Leone ridevano dell’imitazione e delle battute di Noschese: si mettevano nei nostri panni e capivano che quelle bonarie prese in giro servivano a sfogare una parte della nostra ostilità. I politici attuali hanno capito il meccanismo (la maggior parte sono lenti di comprendonio, ma, dagli e dagli, alla fine qualche cosa capiscono).

Altro esempio.

«Camminavo con lui tête-à-bête»

Si inventa un’espressione inesistente nella lingua francese, condensando due concetti: 1) camminavo con una persona stando molto vicino ad essa (tète-à-tête), 2) quella persona è una bestia (une bête).

Tenendo separate le due informazioni, date una di seguito all’altra, non si ride. Se sono condensate in una nuova espressione sintetica, abbreviata, inventata, si ride. Non tanto, ma, effettivamente, tête-à-bête fa sorridere.

I giochi di parole fanno ridere (ne conosco migliori).

A questo punto il discorso diventa più interessante, perché mette in relazione queste osservazioni con le esperienze e le riflessioni che Freud svolgeva riguardo ad altri ambiti dell’attività psichica.

Egli ricorda che nel libro L’interpretazione dei sogni, pubblicato cinque anni prima, aveva enunciato che la condensazione e l’abbreviazione sono i processi che fanno nascere il sogno dai pensieri onirici latenti.

Dunque, ci dev’essere una relazione tra la formazione dei sogni e la costruzione dei motti di spirito. Di questo tratterà più approfonditamente in altra parte del libro.

Il motto di spirito più divertente, quasi una barzelletta, raccontato da Freud, attiene a un ricordo personale.

Un suo professore aveva fama di non possedere un briciolo di senso dell’umorismo.

Che cosa doveva essere questo professore! Quali traumi avrà inflitto al giovane Freud e ai suoi compagni in una scuola austroungarica!

Immagino Shining di Stanley Kubrick in un’aula di quella scuola, con il professore nei panni di Jack Nicholson che, al posto dell’accetta, impugna un testo di filosofia che gli studenti devono imparare a memoria dalla prima all’ultima parola e al contrario, dall’ultima alla prima, in quella lingua fatta di parole lunghe e parole lunghissime, dal suono sgraziato, che ferisce le orecchie.

In questo ambiente da film horror (è la cornice immaginata da me, a cui Freud non accenna), il professore sadico (mancanza di senso dell’umorismo e sadismo sono in relazione di causa ed effetto), un mattino arriva a scuola con un’aria stranamente allegra.

Gli studenti, fra i quali il giovane Freud, si domandano: «Che cosa gli sarà capitato? Come mai è così contento? Avrà ammazzato qualcuno? La professoressa di ginnastica gli avrà finalmente detto di sì, facendo lei la prima mossa, data la ritrosia del professore a manifestare i propri sentimenti?»

No. Il professore, in vena di confidenze, racconta ai giovani studenti un episodio divertente a cui ha assistito la sera prima, nel corso di un ricevimento caratterizzato da una noia mortale (questo l’ho aggiunto io, oltre alla cornice).

Alla padrona di casa, una signora immagino grassa, ingioiellata e dotata di una voce squillante, particolarmente fastidiosa negli acuti, viene presentato un giovane ospite, che ha i capelli rossi ed è discendente del filosofo Jean-Jacques Rousseau, di cui porta il cognome.

La signora è felice di questa conoscenza, invidiata da tutte le sue amiche, però nel corso della serata rimane delusa.

Il giovane si dimostra inadeguato rispetto alla fama dell’avo e all’ambiente in cui si trova: inanella una serie di brutte figure, una dopo l’altra.

La signora si rivolge alla persona che le aveva presentato il giovane con questa frase: «Vous m’avez fait connaître un jeune homme roux sot, mais non pas Rousseau» («Mi avete fatto conoscere un giovane rosso e stupido, non Rousseau»).

In italiano si perde l’effetto. In francese c’è un gioco di parole fonico, perché “roux sot” si pronuncia come Rousseau, roux vuol dire rosso, sot vuol dire stupido.

Freud ricorda con piacere questo episodio e questo motto di spirito.

Mi verrebbe voglia di chiedergli (ammesso di poterlo fare): barzellette a sfondo sessuale, niente? Non ve le scambiavate fra ragazzi?

Educatissimi, questi studenti Austro-Ungarici! Oppure, purtroppo, il dottore non ha voluto raccontare a noi le barzellette oscene della sua giovinezza.

Freud osserva molto acutamente che nel motto di spirito inventato dalla gaia signora non c’è condensazione con formazione sostitutiva ma ripetizione (Rousseau e roux sot): stesso suono, significati diversi. Ci tiene molto a queste precisazioni. Vorrebbe scomporre ogni battuta nei suoi elementi costitutivi, classificare i motti di spirito come Linneo ha classificato i viventi.

Un altro esempio introduce l’imperatore Napoleone Bonaparte, che, nel corso di una festa, con la sua nota signorilità, per sottolineare la scarsa attitudine al ballo del marito italiano, rozzo e un po’ cafone, di una signora, le chiese se tutti gli italiani ballavano così male.

Prontamente la signora rispose, guardando con intenzione il tappo che aveva davanti, vestito da imperatore, «Non tutti. Buonaparte».

Geniali, queste vecchie signore! Sicure di sé, battuta pronta; non si tengono la parola e hanno a che fare con uomini non alla loro altezza.

Da un altro esempio apprendiamo una battuta che circolava fra i medici austriaci in quell’epoca. Trattandosi di uomini, non è una risposta, una reazione. È un’aggressione nei confronti di soggetti deboli.

Il medico domanda a un giovane che ha in cura: «Fai ricorso alla masturbazione?»

Il giovane risponde: «O na, nie!», che in berlinese significa: «Oh, no, mai!»; ma onanie (onanismo) è la parola tedesca per masturbazione.

Così si divertivano quei mattacchioni dei medici austriaci all’epoca di Freud, alle spalle dei clienti, soprattutto se giovani e, presumibilmente, dediti all’onanismo (unica attività sessuale concessa prima di poter accedere alle case chiuse; per alcuni, prima del matrimonio).

I tre esempi precedenti dimostrano che la condensazione con formazione di una struttura sintetica non è la tecnica universale per la creazione del motto di spirito. Ci sono molti altri meccanismi; non si potranno elencare tutti né ridurre a una tecnica universale. Portare ordine nel caos è ammirevole, ma non sempre possibile.

Osservando che il signore e la signora X vivono nel lusso (l’utilizzo della sigla anonima dimostra che Freud non voleva ricorrere al procedimento scientifico detto sputtanamento) qualcuno dice: lui guadagna molto e si può adagiare un poco; qualcun altro, forse strizzando l’occhio, dice: lei si adagia un poco e, di conseguenza, guadagna molto.

In questo caso l’umorismo viene da una inversione: lui molto – poco, lei poco – molto e dall’intenzione maliziosa.

Non c’è niente da fare: l’ostilità, che accomuna chi parla e chi ascolta, nei confronti di chi viene preso di mira, è un elemento essenziale del motto di spirito. Nessuno riporterebbe questa battuta al signor X; se qualcuno lo facesse non sarebbe per farlo divertire.

Nella Vienna di Freud, nella borghesia, si spettegolava in questo modo: mai dicendo le cose come stanno; per dire che la signora X è una puttana, si faceva un gioco di parole che poteva essere ripetuto nei salotti senza impegno e senza assumersi alcuna responsabilità.

Un esempio in italiano fa riferimento alla coppia di parole traduttore – traditore; parole quasi uguali, aventi significati che si possono collegare, perché la traduzione comporta sempre, in una certa misura, il tradimento del testo originale.

Non capisco perché l’esempio appena citato sarebbe un motto di spirito. Non è un gioco di parole. È un’affermazione condivisibile, ma non comporta un intervento sulle parole o sul loro significato. Non fa ridere. Forse faceva ridere Freud.

A questo punto, per non perdere il bandolo della matassa, per non smarrire il filo del discorso e farlo smarrire anche al lettore, per non perdersi in chiacchiere ed esempi che si seguono accavallandosi uno sull’altro come le onde sulla superficie del mare, confondendosi e mescolandosi in prossimità della riva, inserisce una catalogazione delle tecniche del motto di spirito esaminate finora, che risultano suddivise nei seguenti gruppi e in ulteriori sottogruppi.

Condensazione (Cleopoldo; tête-à-bête)

Molteplice impiego dello stesso materiale verbale (Rousseau, rous soz; Buona parte, Bonaparte)

Doppio senso (O, na, nie – onanismo; significato malizioso di adagiarsi nell’esempio della signora che si adagia un poco e guadagna molto)

Dagli esempi si constata che la caratteristica comune a tutti i motti di spirito esaminati è il risparmio, la brevità, la sintesi.

Infatti nelle barzellette – motti di spirito accompagnati da un racconto che svolge la funzione di preparazione e inserimento in un contesto – la brevità è fondamentale, e, con essa, il ritmo.

Guai ad allungare il racconto o a diluire l’umorismo con una serie di particolari inutili. Non farebbero altro che innervosire l’uditorio, gettandolo in una condizione di frustrazione che potrebbe sfociare nello sconforto, addirittura nella ribellione contro l’incapace raccontatore di barzellette.

Fra le cause della rivoluzione francese sono state trovate testimonianze di barzellette lunghissime e poco efficaci che i sovrani di Francia avevano l’abitudine di raccontare ai sudditi con la speranza di conquistarne la devozione. Mai speranza fu più illusoria e raccontatori di barzellette più incapaci. Sappiamo tutti come è andata a finire.

Seguono alcune barzellette che non fanno ridere, ma facevano ridere Freud.

Per esempio la seguente, che a me sembra decisamente triste.

Un uomo lavorava come istitutore; era bravo, ma aveva un problema: ogni tanto alzava il gomito; con esso la mano, con la mano il bicchiere, che portava alla bocca; insomma era abbastanza alcolizzato.

Man mano che il suo problema veniva alla luce, perdeva allievi, finché rimase senza lavoro.

Un suo amico cercò di convincerlo a smettere di bere dicendogli: «Tu sei un bravo istitutore, avresti molto lavoro se ti liberassi di questo vizio.»

Lui rispose: «Io faccio l’istitutore per bere. Dovrei smettere di bere per fare l’istitutore?»

Logica impeccabile, che getta un po’ di luce sulla condizione del piccolo borghese in una società nella quale la ricchezza viene dal censo o dagli affari, gli studi servono solo a farsi schiavizzare dai figli viziati di una famiglia alto borghese o nobile.

La condizione del piccolo borghese frustrato è stata descritta in grandi opere della letteratura, contemporanee, o quasi, a questo saggio e riferite, più o meno, allo stesso ambiente.

Il piccolo borghese erudito, insoddisfatto, lavora per concedersi delle pause di fuga dalla realtà e non ha l’intenzione di smettere i propri vizi perché non vuole farsi schiavizzare meglio. È una scelta autodistruttiva, ma io credo che in certe situazioni non ci siano altre possibilità e che sia molto facile giudicare dall’esterno.

Nell’esaminare questa barzelletta il dottor Freud dimostra un moralismo inaspettato, afferma che la comicità della risposta deriva dal cinismo dichiarato apertamente, non nascosto, dell’uomo che dice: «Bere è la cosa più importante per me.»

Non è cinismo; se non sei cresciuto in una famiglia ricca, se non fai un lavoro ben remunerato, se non puoi concederti (come Freud) di fare un uso controllato di cocaina, se, nonostante i tuoi studi, guadagni poco e sei poco più di un servo, non è cinismo. È disperazione.

Un uomo entra in una gioielleria e si fa impacchettare un orologio.

Ci ripensa, restituisce l’orologio e si fa impacchettare un braccialetto.

Fa per andarsene. Il gioielliere lo ferma: «Non paga?»

«Per il braccialetto ho dato indietro l’orologio» risponde l’uomo.

«Ma non ha pagato l’orologio», ribatte il gioielliere.

«Dovrei pagare per una cosa che non ho preso?», risponde l’uomo. E se ne va.

Freud ambienta la barzelletta in una pasticceria, a me sembra funzioni meglio in una gioielleria; il meccanismo è lo stesso.

La furbizia del protagonista consiste nell’aver creato un rapporto, in realtà inesistente (l’illusione di un rapporto), tra la restituzione dell’orologio e l’acquisizione del braccialetto, nell’aver collegato due episodi indipendenti: prende l’orologio, lo restituisce, non deve nulla; prende il braccialetto, deve pagarlo; collegando i due episodi, sembra che abbia pagato il braccialetto con l’orologio.

«È questo il posto in cui il duca di Wellington disse quelle parole?»

«Sì, è questo; ma non ha mai detto quelle parole.»

Se le due battute si collegano, cioè si riferiscono allo stesso posto e alle stesse parole, si ha un effetto comico.

X prende in prestito una pentola di rame da Y.

La restituisce con un grosso buco sul fondo; viene chiamato in giudizio.

X si difende affermando che a) lui non ha mai avuto una pentola da Y e b) la pentola aveva già un buco quando l’ha presa da Y e c) l’ha restituita intatta, senza nessun buco.

Ciascuna delle tre affermazioni esclude le altre due, una sola può essere vera. Dunque X non può affermare che sono vere a) e b) e c) (congiunzione). Potrebbe affermare che sono vere a) o b) o c) (disgiunzione esclusiva), ma sarebbe difficile convincere il giudice con questa difesa, o con questa: «Signor giudice, non l’ho ammazzato io perché non c’ero, se c’ero non ero armato, se ero armato non ho sparato, se ho sparato non è detto che sia morto.»

Segue una serie di storielle di ambiente ebraico, con protagonista lo Schadchen, il sensale di matrimoni. Queste storielle funzionano tutte allo stesso modo delle precedenti: un elemento del discorso introduce una contraddizione logica o si collega in modo assurdo a un altro elemento. L’umorismo scaturisce da un ragionamento errato.

Interessante: ridiamo se uno cade (senza farsi troppo male), ridiamo se fa un errore di logica. In entrambi i casi noi vediamo una cattiva interpretazione della realtà che determina conseguenze negative: si inciampa nello scalino, si cade nel tombino, si inciampa nel discorso, si cade in contraddizione. Per quale motivo l’errore provoca in noi questa reazione? A che cosa serve aprire la bocca piegando gli angoli in sù e mostrare i denti? Che funzione svolge l’emissione di scoppi di aria più o meno incontrollati che possono anche non esserci (sorriso) o possono arrivare al parossismo, all’interruzione della respirazione (morire dal ridere)? Forse il piacere è dovuto alla constatazione di essere immuni dall’errore, di essere capaci di interpretare correttamente la realtà. Anche al cinema? Ma perché il piacere è espresso con quella maschera mimica, con quelle scoppiettanti emissioni di aria?

Questo ce lo deve spiegare il padre della psicoanalisi (secondo me si rompeva le scatole quando lo chiamavano così). Ce lo spiegherà? Lo scopriremo leggendo (lettura e commento procedono parallelamente, interruzioni comprese).

Segue una serie di barzellette che facevano ridere Freud ma non fanno ridere me, sulle quali non mi dilungo. Si può supporre che piacessero anche allo zar Nicola II Romanov, che le raccontava ai suoi sudditi. Illustri studiosi ritengono che questa sia stata una delle cause della Rivoluzione di Ottobre.

Una barzelletta viene definita aneddoto americano.

Due uomini d’affari americani, che hanno fatto i soldi con gli imbrogli e con imprese rischiosissime (questa era l’idea che circolava in Europa del libero mercato nel Nuovo Mondo), volendo entrare nella buona società, pensano di darsi all’arte.

Si fanno fare un ritratto ciascuno dal più apprezzato pittore locale e invitano un famoso critico d’arte a un ricevimento. Nel corso della festa lo portano ad ammirare i due quadri appesi a una parete e si dispongono in religioso silenzio accanto a lui, in attesa del suo giudizio.

Il critico guarda a lungo i due quadri, poi dice, indicando lo spazio compreso tra i due sulla parete e scuotendo la testa: «Dov’è il Redentore?»

Secondo Freud questa battuta è pungente perché evoca la rappresentazione “Cristo tra i due ladroni”, quindi è un modo per dare del ladro ai due padroni di casa.

Non condivido questa interpretazione, innanzitutto perché il critico è ospite, quindi ha accettato l’amicizia dei due. Non si dà del ladro ai padroni di casa. Se sono ladri, non ci si mischia con loro. Ma qui gioca la tendenza all’ipocrisia, tipica dell’ambiente alto borghese. Secondo Freud era ammissibile frequentare persone che si disprezzano e manifestare il proprio disprezzo con un vago motto di spirito.

Non credo sia giusta l’interpretazione anche perché la battuta, per colpire, richiederebbe una nota. Niente di più noioso e inefficace. Il motto di spirito dev’essere come un colpo di rivoltella, che non richiede una spiegazione per capire che fa male.

Forse è una presa in giro delle pretese di intenditori di arte dei due ricchi o un segno di non apprezzamento dell’artista autore dei quadri.

In questo caso la battuta sarebbe troppo sofisticata per loro; per noi sarebbe un segno di apprezzamento: la capacità di trasfigurazione del soggetto è considerata in modo positivo nell’arte moderna, ma anche nell’arte antica (quanti nobili mecenati sono stati inseriti nelle nascite di Cristo!). Essere rappresentati come i due ladroni crocifissi, o come discepoli (nella battuta non ci sono riferimenti alla croce) riempirebbe di orgoglio due ricchi attuali, ammesso che si siano offesi i due ai quali era rivolto il motto di spirito, il cui umorismo si potrebbe definire britannico, nel senso che è difficile capirlo.

A Vienna c’era un giornalista assai combattivo, chiamiamolo X, autore di articoli pungenti ai danni di personaggi pubblici, i quali, per dimostrargli la loro riconoscenza, lo avevano più volte aggredito e anche malmenato.

Discutendo di un nuovo imbroglio, commesso dagli abituali nemici del giornalista, un suo collega dice: «Se X conoscerà questo misfatto, si prenderà qualche ceffone.»

Si tratta di un’allusione per mezzo di omissione.

L’omissione è: «Se X conoscerà questo misfatto, scriverà un articolo pungente contro il suo autore.»

L’allusione è: «L’autore del misfatto, letto l’articolo, ancora una volta aggredirà X.»

I giornalisti d’inchiesta, allora come oggi, non avevano vita facile.

Un dottore era stato chiamato ad assistere una baronessa in procinto di partorire.

Poiché c’era da aspettare, il dottore propose al barone di fare una partita a carte in una stanza accanto a quella dov’era ricoverata la partoriente.

A un certo punto si udì provenire dalla stanza della baronessa un grido in francese: «Ah, mon Dieu! Que je souffre!»

Il barone interruppe la partita, ma il dottore disse: «Continuate a giocare. Non è ancora il momento.»

Poi si sentì un grido mezzo in tedesco e mezzo in italiano: «Mein Gott! Che dolore!»

Di nuovo il dottore invitò il barone a continuare (forse stava vincendo).

Infine si sentirono suoni inarticolati provenire dalla stanza della baronessa.

Allora il dottore si alzò, lasciò cadere le carte e disse: «È ora», (certamente stava perdendo).

Che cosa vorrebbe significare questa storiella, secondo Freud?

Vorrebbe significare che il dolore vero ha qualcosa di primitivo e si esprime non con le regole della lingua ma con suoni appunto primitivi, inarticolati.

Ne segue che per farsi aiutare dai dottori austroungarici bisognava emettere ululati. Guai a dirgli, in una lingua qualsiasi, «dottore, mi aiuti!», non si muovevano neppure, soprattutto se erano impegnati in una partita a carte e stavano vincendo.

Siamo alla conclusione del capitolo. Classifichiamo le tecniche dei motti di spirito presi a esempio.

Nella prima parte abbiamo visto i motti di spirito verbali. Essi sono basati su

Condensazione

Molteplice impiego dello stesso materiale verbale

Doppiosenso

Nella seconda parte gli esempi si riferiscono ai motti di spirito concettuali, basati su

Spostamento

Ragionamento erroneo

Assurdità

Rappresentazione indiretta

Rappresentazione mediante il contrario

Non solo le tecniche dei motti di spirito verbali, anche le tecniche dei motti di spirito concettuali sono presenti nel meccanismo del sogno.

A questo punto il maestro dei sogni, detto con tutto il rispetto, ci dovrà dimostrare questa concordanza, dovrà verificarla nel dettaglio e dovrà spiegare a che cosa è dovuta.

In effetti Freud aveva una passione a cercare di spiegare le cose della vita che a molti sembrano banali.

Non solo i sogni, non solo i motti di spirito, anche i lapsus: in Psicopatologia della vita quotidiana (prima edizione 1901, ultima edizione, con molti aggiornamenti, 1924), ci spiega come mai decidiamo di fare una cosa e stranamente ce la dimentichiamo, come mai diciamo «buona sera» all’inizio di una riunione che si svolge di mattina, come mai ci facciamo influenzare dalle idiosincrasie, come mai a volte sembra che abbiamo perso il controllo pieno di alcune parole e altre ci sfuggono.

Teniamo presente che la psicoanalisi non è una scienza sperimentale (dove sono gli esperimenti, le misure?); è una tecnica che si è dimostrata utile in un certo numero di casi. Il compito di Freud consiste nel costruire un quadro, una visione complessiva che consenta di spiegare i risultati ottenuti applicando questa tecnica e di renderla adatta a risolvere un numero sempre maggiore di situazioni di sofferenza (Woody Allen: «Sono in analisi da dieci anni. Do un altro anno al mio psicanalista. Se non guarisco dalla nevrosi, l’anno prossimo vado a Lourdes»).

Cap.3 Gli scopi del motto di spirito

A Freud piacevano le classificazioni; ne introduce una nuova all’inizio del capitolo.

Oltre che verbali e concettuali, i motti di spirito possono essere tendenziosi o innocenti.

I primi hanno uno scopo (per esempio dare una certa visione degli esponenti di un partito politico o di un determinato gruppo religioso), i secondi, detti anche astratti, sono puro divertimento, non si propongono di raggiungere uno scopo diverso dalla produzione di umorismo.

Solitamente (non sempre) i motti di spirito verbali sono astratti (innocenti), i motti di spirito concettuali sono tendenziosi.

Non sempre. I giochi di parole basati sulla storpiatura dei nomi propri sono verbali, ma spesso anche tendenziosi (se hanno lo scopo di aggredire qualcuno).

Segue un’affermazione importante, che ci fa sperare di trovare qualche barzelletta un po’ più saporita.

Freud dice che per gettare una luce teoretica sulla natura dei motti di spirito dobbiamo scegliere i più innocenti e triviali.

Questo perché lo scopo di un motto di spirito tendenzioso o il suo contenuto importante ci potrebbe distogliere dal valutarne la tecnica.

Ma sì, Sigmund, raccontaci una barzelletta triviale!

Ci accontenta.

Una ragazza, alla quale fu annunciato un visitatore mentre era occupata a fare toeletta, si lamentò: «Che peccato non potersi mostrare che quando si è anziehend!». Anziehend vuol dire sia vestita che attraente.

Tutto qua? È il massimo di trivialità che riesci a produrre?

Sigmund, ci stai deludendo!

Segue l’affermazione di un principio.

Il motto di spirito è motivato dal desiderio di provare piacere, il piacere che si esprime col riso.

La forma ci dà piacere, indipendentemente dal contenuto (fino a un certo punto: se racconto una stronzata, sempre stronzata rimane, anche se la racconto bene).

Se raccontiamo il contenuto della barzelletta senza rispettare la forma (la progressione, il ritmo, la battuta finale) quel racconto, separato dal meccanismo, non fa ridere.

Questo è vero; basta pensare alla barzelletta sull’incidente tra il carretto e la Volkswagen (vedi Barzellette). L’immagine finale farebbe impressione (il carrettiere gravemente ferito) se quest’uomo, che ha sentito, da sotto le macerie del carretto, il trattamento a cui il guidatore del maggiolino ha sottoposto il cavallo e il cane feriti, non cercasse di rassicurarlo, di placarlo, cantando «stonghə buonə» («sto bene») per salvarsi. È importante che il racconto segua quella progressione, il crescendo che cattura l’attenzione dell’ascoltatore.

Si tratta di un motto di spirito innocente? Forse, perché sembra motivato solo dal desiderio di produrre umorismo e il tedesco che ammazza per pietà è solo uno stereotipo, se non c’è l’intenzione di colpire l’immagine di un popolo. Tutto dipende dall’intenzione. Potrei raccontare questa barzelletta bonariamente a un amico tedesco o raccontarla a un nemico tedesco, con l’intenzione di colpirlo.

Qui Freud lancia una frecciatina contro i filosofi, che considerano il valore puramente estetico del motto di spirito, indipendente dal piacere che esso procura.

È vero: del valore estetico non c’importa molto, quasi nulla; vogliamo ridere! Come già detto: una stronzata è sempre una stronzata, anche se è raccontata bene.

Vogliamo ridere e: Vogliamo vivere! – titolo italiano di un meraviglioso e assai divertente film di Lubitch (titolo originale: To be or not to be).

Per Freud il motto di spirito è “un’attività che ha lo scopo di derivare il piacere da alcuni processi mentali, intellettuali o di altro tipo”.

Vediamo, con l’aiuto del dottore, come il meccanismo del motto di spirito sia in grado di suscitare piacere in chi lo crea, in chi lo racconta, in chi lo ascolta.

Non mettiamo da parte, dice Freud, i motti di spirito tendenziosi.

D’accordo Sigmund, non mettiamoli da parte. Perché?

Perché i motti di spirito innocenti fanno tutt’al più sorridere, mentre quelli che fanno veramente scoppiare dal ridere – scompisciare, direbbe Totò – sono i motti di spirito tendenziosi, i quali hanno a loro disposizione “sorgenti di piacere che sono precluse a quelli innocenti”.

Quando un motto di spirito non è innocente, può avere due soli scopi: 1) esprimere ostilità per qualcuno, 2) rappresentare un’oscenità, al servizio di denudazione.

Qui la cosa si fa interessante, perché Sigmund dichiara che in questa ricerca preferisce occuparsi principalmente “non dei motti di spirito ostili ma di quelli di denudazione”.

Ci spiega: un discorso osceno mette “intenzionalmente in evidenza i fatti sessuali e le loro relazioni per mezzo della parola”. Insomma, senza farla tanto complicata, è un discorso in cui si parla di sesso.

Come sempre nella vita, è una questione di intenzioni.

Per quale motivo X descrive nei dettagli organi e atti sessuali? Perché è un medico e sta spiegando a una paziente i sintomi di una malattia. Bene: non c’entra con ciò di cui stiamo parlando.

X parla di sesso perché si sta eccitando e vuole stimolare un’eccitazione sessuale nella donna che lo ascolta.

In questo caso si tratta di un discorso osceno. Se è divertente è un motto di spirito tendenzioso, che ha uno scopo ben preciso.

Non c’è nessun giudizio morale dietro questa definizione. È un fatto tecnico.

Freud parla specificamente e, mi sembra, unicamente, di uno scambio unidirezionale, che parte da un uomo e arriva a una donna. Ciò dipende, credo, dalla sua educazione, dall’ambiente che ha sempre frequentato, l’unico su cui costruisce i suoi discorsi in questo libro.

Forse ai suoi tempi solo nelle case chiuse una donna poteva parlare di sesso con un uomo prendendo l’iniziativa, ma non credo per raccontare motti di spirito. Le prostitute erano povere donne di rango sociale e di educazione talmente inferiore agli uomini che tra di loro correvano poche parole.

Freud accenna a rapporti un po’ diversi “fra i contadini”, ma si occupa esclusivamente, in questo libro, dell’ambiente in cui vive.

Dunque la situazione è questa: un uomo racconta un motto di spirito osceno a una donna perché si eccita sessualmente e vuole eccitare la donna. Il racconto è una scusa, una modalità di approccio sessuale.

Siamo in un ambiente in cui la descrizione degli organi sessuali, il semplice nominarli, è sufficiente per eccitarsi.

La donna nasconderà la sua reazione, la sua vera reazione, ostentando vergogna, imbarazzo.

Questa ambientazione limitata alla propria epoca, alla propria classe sociale, costituisce un limite del discorso, giustificato dal metodo induttivo: parte da esempi concreti, cerca regole e classificazioni, man mano allarga il campo.

È ovvio che in epoche di poco successive (dopo la prima e, soprattutto, dopo la seconda guerra mondiale) e in ambienti diversi, le situazioni e le reazioni sono molto più varie.

Seguiamo il discorso di Freud, che non poteva prevedere gli sconvolgimenti prodotti dalle due guerre mondiali, come noi non possiamo prevedere gli sconvolgimenti – sociali, economici, psichici – che la pandemia in cui siamo immersi provocherà nel nostro modo di vivere (scrivo nel marzo/aprile del 2020, in piena quarantena, distanziamento sociale, città deserte, gente che gira in maschera, tutti con la stessa maschera, pur non essendo carnevale).

Un motto di spirito osceno è un tentativo di seduzione che va da un uomo a una donna (è come la freccia scoccata da Cupido, metafora dell’impulso sessuale).

Se il motto di spirito si racconta tra uomini, serve a procurarsi piacere immaginando la situazione originaria: il rapporto uomo donna; quest’ultima assente, in realtà sempre presente in immagine, quindi assolutamente passiva.

L’uomo che ascolta è spettatore di un atto di aggressione sessuale.
Qui qualcosa mi sfugge, perché è passato, senza spiegazione, dall’impulso all’aggressione.

La spiegazione, sottintesa, sicuramente è questa: il ruolo passivo in cui è confinata la donna comporta in modo automatico una violenza. Se la donna non può scegliere, non può prendere l’iniziativa, ma dev’essere per forza bersaglio della freccia di Cupido, il rapporto sessuale è sempre, comunque uno stupro.

Bravo Sigmund! Ha capito una cosa che non doveva essere chiara nella testa di molti suoi contemporanei, e non è chiara nella testa di nostri contemporanei appartenenti ad alcune religioni, in particolare a una assai diffusa, in cui si esalta il ruolo passivo della donna.

Nella storia degli uomini che si scambiano motti di spirito, barzellette a sfondo sessuale, sento un che di conosciuto, di sperimentato: un richiamo alla scoperta della sessualità, molto immaginaria e masturbatoria, nella prima adolescenza, negli anni sessanta, in un posto di provincia.

Ricordo benissimo i racconti esagerati che ci scambiavamo tra ragazzi o che i ragazzi più grandi ci elargivano, in cui il rapporto immaginato, assurdo, era vissuto sostanzialmente come uno stupro.

Ricordo benissimo che quei racconti servivano ad eccitarci, immaginando la ragazza di cui si parlava, di cui si fantasticava, che vedevamo come un oggetto sessuale, privo di volontà o di personalità.

Forse questi borghesi adulti Austro-Ungarici dei primi del novecento vivevano il sesso come gli adolescenti brufolosi presessantottini della provincia italiana.

Torniamo a Freud.

La spinta sessuale contiene elementi specifici per ciascun sesso ed elementi comuni.

Che cosa c’è di comune all’uomo e alla donna riguardo all’impulso sessuale?

Secondo Freud è comune “quanto c’è di escrementizio nel senso più ampio. Questo è il senso nascosto della sessualità nella fanciullezza, un’età nella quale c’è, per così dire, una cloaca nella quale ciò che è sessuale e ciò che è escrementizio sono raramente ο niente affatto distinti. In tutto il campo della psicologia delle nevrosi, ciò che è sessuale include ciò che è escrementizio, e viene inteso nel vecchio significato, infantile.

Come spiegato in Tre saggi sulla sessualità, che fu pubblicato nel 1905, lo stesso anno di questo saggio, sessuale ed escrementizio non si distinguono nella fanciullezza.

Questo concetto, insieme allo studio dell’inconscio, è l’apporto originale di Freud alla conoscenza della psiche: la sessualità non è una caratteristica esclusiva dell’adulto (a partire dalla pubertà), ma è presente anche nel bambino, in una forma diversa, naturalmente, in una forma non legata all’apparato genitale (che deve subire delle trasformazioni), ma agli orifizi presenti nel corpo e alle funzioni che svolgono.

Nelle nevrosi può verificarsi un ritorno a una sessualità infantile, orientata agli stessi orifizi e alle stesse funzioni da cui il bambino trae piacere.

Nel discorso osceno colui che racconta immagina parti del corpo e atti che lo eccitano e induce l’ascoltatrice a immaginare le stesse cose e ad eccitarsi (se entrambi hanno potuto scegliere).
Non c’è dubbio che il desiderio di vedere denudato ciò che fa parte del sesso sia il motivo di base del discorso osceno.
Non c’era dubbio ai tuoi tempi!

Secondo Freud una delle componenti originali della nostra libido è il desiderio di vedere gli organi sessuali, di osservarli, di scoprirli (non in una tribù primitiva, credo, dove gli uomini e le donne vivono praticamente nudi fin da bambini e, forse, neanche in una “tribù” di nudisti).

Anche qui mi sembra che il discorso sia ancorato a un’epoca in cui le donne indossavano ampie gonne lunghe fino alle caviglie e sulla spiaggia, dove pochi andavano, si indossavano mutandoni.

Nelle nuove generazioni non mi sembra che la visione degli organi sessuali esposti sia una componente importante della libido. Per noi vecchi ci può essere un residuo di vecchie spinte non completamente soddisfatte a tempo debito, per i giovani è poco più di una curiosità.

Naturalmente, questa è una valutazione soggettiva, ma la psicoanalisi è soggettiva (in senso buono, come la letteratura, il calcio e la pizza).

Un desiderio di vedere esposti gli organi peculiari a ciascun sesso è una delle componenti originali della nostra libido. Esso potrebbe essere una sostituzione di qualcosa di antecedente e risalire all’ipotetico desiderio primitivo di toccare le parti sessuali proprio come spesso la vista ha sostituito il tatto”. Qui non ti seguo: il desiderio di vedere sarebbe uno sviluppo del desiderio di toccare? Secondo te in un adulto l’idea di guardare immagini pornografiche, o, addirittura, anatomiche, sarebbe più “libidinosa” (per dirla con quell’attore … come si chiama? …) dell’idea di impegnarsi in una serie di gesti, di preliminari che includono soprattutto l’aspetto tattile?

Qui Sigmund sviluppa un discorso che può essere così riassunto: negli uomini, più che nelle donne, permane una forte componente libidica a “guardare”. Quando avvertono questa “urgenza” (quando scocca la scintilla) cominciano a parlare, nella speranza di suscitare la spinta complementare nella donna (essere guardata). “Se la prontezza della donna emerge subitanea, il discorso osceno ha vita breve; esso cede d’improvviso all’azione sessuale.” In altri termini: se il tutto si svolge in una casa chiusa, la pantomima cede rapidamente il posto all’azione (poi si passa alla cassa). Se la donna manifesta azioni difensive (mettiamo che tu non le piaci proprio o non siamo in una casa chiusa) l’uomo passa al discorso osceno. In questo caso l’evocazione del piacere nella donna, per quanto mascherato dalla vergogna (ma che donne frequentava Freud? Ah già! L’impero Austroungarico) genera il piacere dell’uomo. “L’inflessibilità della donna è perciò la prima condizione per lo sviluppo del discorso osceno, ma deve essere tale, per essere esatti, da implicare semplicemente un rinvio e non da indicare che sforzi successivi saranno vani.” In altri termini: se la donna mostra troppo apertamente all’uomo che le fa schifo, l’uomo, naturalmente, si smonta. La condizione ideale è la presenza di un altro uomo, perché giustifica la resistenza della donna e costituisce un ostacolo che potrebbe, in occasioni successive, essere eliminato. Spero di avere riassunto bene (a modo mio).

Generalmente, un motto di spirito tendenzioso richiede tre persone: oltre a quella che fa il motto di spirito, ci deve essere una seconda persona che è l’oggetto dell’aggressione ostile ο sessuale, ed una terza persona attraverso la quale viene soddisfatto lo scopo del motto di spirito di procurare piacere.

In altri termini: c’è quello che parla e, così facendo, sfoga la pulsione sessuale nei confronti della donna, c’è la donna, oggetto della pulsione, che manifesta un ostacolo non insormontabile al soddisfacimento della spinta sessuale, c’è l’ascoltatore, che si diverte.
Attraverso il discorso osceno della prima persona la donna è denudata davanti alla terza che, come ascoltatrice, viene sedotta dalla soddisfazione senza sforzo alcuno della propria libido.

Continuiamo a girare tra le sale del castello, domandandoci se le pareti, il soffitto, il pavimento continueranno a reggere il nostro peso. Poi pensiamo che gente molto più pesante si è aggirata e continua ad aggirarsi per queste sale (l’ultimo l’abbiamo visto in televisione, circondato da una corte di giovani, in particolare di belle ragazze) e ci tranquillizziamo.

In conclusione, Freud ritiene che i motti di spirito rendano “possibile una pulsione (libidica o ostile) di fronte a un ostacolo che si frappone”.

L’ostacolo è il rifiuto della donna o la sua assenza nel caso il motto di spirito sia raccontato tra uomini.

La rimozione è il processo psichico che sposta nell’inconscio gli impulsi inaccettabili, che, faticosamente e lentamente, lo psicanalista aiuta il paziente a portare alla coscienza.

Lo aiuta rimanendo immobile e taciturno, come il santo a cui si chiede la grazia.

L’educazione e la civiltà alterano l’organizzazione psichica, spostando nell’inconscio pulsioni libidiche presenti nell’infanzia e, presumibilmente, nei nostri antenati non ancora così bene organizzati come siamo noi (nel senso che non sapevano reprimere gli impulsi distruttivi che noi nascondiamo con disinvoltura).

Ciò determina una condizione di sofferenza che viene alleviata dai motti di spirito tendenziosi.

Una persona meno repressa – Freud parla di un contadino; evidentemente per lui la campagna è un posto di minore repressione – farebbe con una donna un discorso osceno esplicito; noi avremmo vergogna o fingeremmo disgusto (o, spinti dalla rimozione, avremmo veramente disgusto). Il motto di spirito ci aiuta a liberare una parte della libido, a scavalcare l’effetto delle inibizioni, senza l’impegno e la fatica di superarle.

Una situazione analoga si verifica con i motti di spirito ostili.

Lo sviluppo della civiltà ha comportato restrizioni e repressioni non solo dell’impulso sessuale, ma anche degli impulsi ostili verso gli altri, che ci indurrebbero ad ammazzare qualcuno per un’inezia.

Anch’essi sono controllati, soprattutto all’interno del gruppo, ritualizzati (il campionato di calcio) e proiettati all’esterno, verso i gruppi rivali, i popoli stranieri eccetera, sempre esercitandoli col rispetto di regole e limitazioni.

Anche l’aggressività brutale e senza regole è stata rimossa, perché impedirebbe la vita sociale, ma continua a premere dentro e a influenzare i nostri comportamenti.

I motti di spirito servono a liberare quell’energia.

Ecco perché le barzellette sono piene di stereotipi riguardanti “gli altri” (i tedeschi, gli americani, i terroni, i polentoni, ecc.).

Il motto di spirito aggirerà le limitazioni e aprirà sorgenti di piacere che sono diventate inaccessibili”.

Tra virgolette sono riportate frasi prelevate dal testo di riferimento (indicato all’inizio); saranno cancellate se gli aventi diritto ne faranno richiesta.

B. Parte sintetica

Cap.4 Il meccanismo del piacere e la psicogenesi dei motti di spirito

Una volta assodato che noi creiamo, raccontiamo, ascoltiamo motti di spirito per il piacere che essi producono, il nostro Virgilio ci farà capire in che modo nasce questo piacere, ci farà comprendere il meccanismo dell’effetto piacevole.

Nel motto tendenzioso il piacere deriva dal soddisfacimento di una tendenza che, altrimenti, sarebbe rimasta insoddisfatta.

Sua Altezza Serenissima, in giro per strada con i cortigiani, nota che un uomo gli assomiglia moltissimo.

Gli chiede, ridendo sotto i baffi: «Tua madre ha lavorato a corte prima che tu nascessi?»

Con questa battuta intende fare riferimento alla fama di donnaiolo del padre defunto, e, forse, di stupratore nei confronti della servitù (si sa che gli appartenenti alla nobiltà si vantavano anche dei propri vizi), senza preoccuparsi minimamente di offendere la memoria della madre, anche lei defunta, dell’uomo.

L’uomo, imperturbabile, risponde: «Mia madre no. A palazzo ha lavorato mio padre».

Si tratta di un motto di spirito tendenzioso, in quanto ha uno scopo ben preciso: ricambiare l’osservazione allusiva alla propria madre, trasferendola alla madre di Sua Altezza e proteggendosi con intelligenza dalla reazione.

In questo modo inserisce anche un dubbio sulla reale paternità, quindi sul diritto alla successione, di Sua Altezza Serenissima.

Bel colpo!

Il primo impulso dell’uomo sarebbe stato, giustamente, a stampare un cazzotto vigoroso sulla fisionomia di Sua Altezza Serenissima, modificandola per un tempo abbastanza lungo e, sperabilmente, in modo permanente.

Se avesse lasciato libero sfogo a quest’impulso, sarebbe stato fermato dai cortigiani e avrebbe rischiato di non riuscire a soddisfare il legittimo desiderio di punire lo stronzo.

Lo ha soddisfatto con una battuta, che ho raccontato un po’ a modo mio; la sostanza è quella.

Si può immaginare che l’uomo abbia riso fra sé e sé, mentre Sua Altezza Serenissima rimaneva a bocca aperta.

Il soddisfacimento di un impulso può avvenire con un gesto (cazzottone sul viso) o con parole (motto di spirito), procurando lo stesso piacere.

Il signor N., parlando di un uomo che, per nascita, qualità, amicizie, sembrava destinato a una grande carriera nella vita pubblica, ma non aveva fatto progressi, disse «Ha un grande futuro dietro di sé».

Probabilmente Vittorio Gassman si ispirò a questo motto di spirito per il bellissimo titolo della sua autobiografia: Un grande avvenire dietro le spalle.

Che cosa intendeva dire il signor N. con questa battuta?

Intendeva dire, in modo sintetico e umoristico, che le grandi possibilità di carriera politica si erano esaurite nel passato dell’uomo a cui si riferiva. Avrebbe potuto dire: «l’uomo aveva un grande avvenire davanti a sé, il grande avvenire non si è concretizzato, quindi si è spostato dietro di sé».

Detto così non fa ridere.

Anche in questo caso il motto di spirito serve ad esprimere ostilità senza darlo troppo a vedere.

L’espressione dell’ostilità non era ostacolata da un fattore esterno (la paura di una ritorsione), ma da un fattore interno: la difficoltà a picchiare il cane bastonato, ad approfittare della debolezza di qualcuno.

Il motto di spirito è servito a liberare l’impulso superando l’ostacolo interno, ed evitando il cosiddetto “ingorgo psichico”, una grandezza a cui Freud fa riferimento anche in altri testi, di cui, mi sembra, non dia una definizione operativa (come si misura l’ingorgo psichico? Quale quantità di ingorgo psichico, avendo superato una misura limite, costringe a cercare una via, per esempio il motto di spirito, per ridurla?).

Si può pensare che l’utilizzo dei motti di spirito tendenziosi dia il piacere corrispondente al dispendio psichico che si è risparmiato.

Un’altra grandezza, il “dispendio psichico”, di cui non si è data una definizione operativa, ma solo intuitiva.

Ecco perché la psicoanalisi non è una scienza sperimentale. Eppure, in un certo numero di casi, funziona.

Non è scritto da nessuna parte che solo le scienze sperimentali e le grandezze da esse definite funzionino in medicina. Qui bisogna stare attenti, perché un conto è una tecnica come la psicoanalisi, basata su un numero enorme di osservazioni ed esperienze e su un impianto teorico complesso, un altro conto è una tecnica manipolatoria fondata su correlazioni arbitrarie e interessate. Se devo proteggermi da un virus, l’unica strada è la vaccinazione, se ho un vago dolorino alle gambe posso anche provare con l’agopuntura o con un prodotto erboristico nel pediluvio, stando attento ai ciarlatani interessati a propagare il nulla. La psicoanalisi può essere utile per alcuni tipi di disturbi psichici, se praticata da gente seria. Fermo restando il concetto espresso dalla battuta di Woody Allen: «Sono da dieci anni in analisi. Do un altro anno al mio analista. L’anno prossimo vado a Lourdes». In altri termini: se mi accorgo di non ottenere risultati, è inutile buttare tempo e soldi. Non credo, però, che Lourdes sia più efficace di una psicoterapia. Forse in alcuni casi non resta altro da fare che accettare la malattia, cercare di accettare se stessi, e tirare avanti.

Dunque, prendiamo per buono il concetto di dispendio psichico e affermiamo, insieme a Freud, che il risparmio di questa grandezza, che si “consuma” per reprimere o inibire una reazione a un ostacolo interno o esterno, genera piacere.

In un rigo successivo è lo stesso Freud ad ammettere “… ed è certamente probabile che, determinando meglio il concetto ancora assai confuso di ‘dispendio psichico’, ci accostiamo all’essenza del motto”.

Ammette che, per ora, il concetto di dispendio psichico è assai confuso.

In seguito aggiunge: “Sappiamo di non aver ancora reso chiaro il modo in cui si effettua il risparmio né il senso dell’espressione ‘dispendio psichico‘”.

In generale, il riconoscimento di ciò che è familiare risulta piacevole.

Per esempio, il bambino ama riconoscere nel racconto di una favola gli elementi che gli sono familiari, i luoghi, le storie, i personaggi, che devono comportarsi sempre allo stesso modo. Ha piacere nel ritrovare ciò che gli è divenuto familiare.

Anche i versi, i ritornelli, le rime sono piacevoli perché consentono il riconoscimento di suoni noti che si ripetono.

Dato il legame esistente tra riconoscimento e ricordo, si può supporre che l’atto del ricordare acceda alla stessa fonte del piacere.

Freud riporta un motto di spirito riferito al caso Dreyfus, per mostrare come l’attualità del contenuto sia importante per determinare il divertimento (nel 1905 il caso Dreyfus era in via di risoluzione).

Questa ragazza mi ricorda Dreyfus: l’esercito non crede nella sua innocenza”.

Da un motto di spirito scopriamo che la principessa Luisa, moglie del principe ereditario di Sassonia, era una nota ninfomane e aveva abbandonato il marito dopo averlo tradito più volte.

Questa simpatica signora si rivolse a un forno crematorio per conoscere il costo di una cremazione.

Gli addetti al forno, ai quali, evidentemente, erano note le particolari tendenze e abitudini della signora, le dissero che avrebbe potuto risparmiare, dacché lei era abbondantemente scottata.

Qui c’è un gioco tra le parole che, in tedesco, significano cremazione, scottatura, fuga con un amante. Umorismo nero, direi.

I motti di spirito devono riferirsi a fatti attuali conosciuti; più sono attuali, maggiore è il piacere che se ne ricava.

Il piacere della ripetizione, della familiarità e dell’assurdo è esemplificato da Freud con due casi: le produzioni verbali del bambino e del malato mentale.

Il bambino impara a parlare sperimentando, in un primo tempo, la produzione di suoni ritmici, ripetitivi, privi di significato, emessi non per comunicare ma solo per provare piacere.

Progressivamente gli adulti lo inducono a collegare le parole a un significato e ad utilizzare l’emissione dei suoni in modo razionale, al fine della comunicazione.

Man mano che cresce il ragazzo, poi l’adulto, tende a dimenticare il piacere infantile, che ritrova sporadicamente nei giochi di parole, nell’uso di rime e assonanze, nei motti di spirito verbali, che utilizza per liberarsi, di tanto in tanto, dall’oppressione della ragione critica.

Questo concetto mi ricorda gli spettacoli e i libri di Alessandro Bergonzoni, caratterizzati da una successione di parole spezzettate e ricombinate, con spostamenti minimi di accenti e di significati.

Da questi spettacoli, reperibili su YouTube, si esce soddisfatti e rilassati, nonostante consistano in un lungo monologo che richiede attenzione continua.

Il performer non ti dà un attimo di tregua, ti costringe a concentrarti e a divertirti, con esplosioni di gioia e applausi spontanei quando il gioco di parole risulta particolarmente intelligente ed efficace.

Naturalmente c’entrano il tono, i tempi comici, l’accento emiliano, le sottolineature, i gesti, la postura, le espressioni facciali di Bergonzoni, ma ho sperimentato che questi testi mantengono la loro forza distruttiva della logica e del senso comune e la capacità di divertire, anche quando sono letti, da soli, nella propria stanza, evocando, ogni tanto, la voce dell’autore.

Il dottor Freud evidenzia una somiglianza tra il modo di esprimersi – non di Alessandro Bergonzoni, che, verosimilmente, non ha conosciuto – del bambino con la produzione verbale di alcune categorie di malati mentali.

Il bambino si dedica a questi giochi, e anche noi, che non siamo bambini, per il “piacere dell’assurdo”, cioè per il piacere di lasciarsi andare a ciò che è proibito dalla ragione.

Non solo il bambino, afferma Freud, e di questo gli possiamo dare conferma, anche l’adolescente, anche il giovane (aggiungerei: anche il vecchio) prova piacere ad interrompere “gli obblighi della logica e della realtà”.

Ora Freud fa una distinzione tra motto di spirito, scherzo e lavoro arguto su cui si può tranquillamente sorvolare, anche perché legata a parole che non possono essere tradotte senza perdere una parte del significato. Non solo perché si tratta di una lingua diversa dalla nostra (tedesco dei primi anni del ‘900, linguaggio filosofico; ma questo è un problema affrontato dagli ottimi traduttori di questa edizione classica dei testi di Freud), ma, soprattutto, perché quelle parole sono legate a un modo di analizzare che a me non interessa: non mi piace seguire un discorso che consiste nel tagliare un capello in quattro nel senso dello spessore, se basta tagliarlo in due o non tagliarlo.

L’insistenza puntigliosa nelle definizioni – come se inseguisse una correttezza metodologica che continuamente gli sfugge e condividesse con noi l’impressione di navigare in un mare di vaghezza estrema – risulta particolarmente noiosa. Per non parlare degli esempi, naturalmente lontani dalla nostra cultura e dal nostro senso dell’umorismo.

Basta questo:

La psicogenesi del motto ci ha insegnato che il piacere provato in esso scaturisce dal giocare con parole o dallo scatenare l’assurdità e che il senso del motto serve soltanto a proteggere questo piacere contro la demolizione della critica.

CAP.5 I motivi dell’arguzia. Il motto come processo sociale.

Freud si domanda quale sia la qualità specifica che consente ad alcuni di produrre motti di spirito. Noi la chiamiamo senso dell’umorismo, quasi fosse un senso aggiuntivo ai cinque canonici; lui la chiamava semplicemente “spirito”. Anche per noi chi è fornito di senso dell’umorismo è spiritoso.

Lo spirito è la realtà immateriale che associamo all’uomo o a una entità superiore o trascendente. Lo Spirito Santo dev’essere molto spiritoso, se consideriamo quello che ha combinato duemila anni fa e nell’ultimo conclave.

La risposta, provvisoria, di Freud alla domanda è preoccupante.

“Se, in veste di medico, si ha occasione di conoscere uno di questi personaggi che, privi di altre qualità particolari, sono noti nella loro cerchia come burloni e coniatori di molti motti correnti, si scopre sovente con sorpresa che questi motteggiatori mostrano una personalità scissa, con predisposizione alle malattie nervose. Per l’insufficienza dei documenti, tuttavia, ci guarderemo dall’affermare che una costituzione psiconevrotica di questo genere sia la condizione soggettiva costante e necessaria della formazione di motti“.

Meno male che c’è insufficienza dei documenti e che si guarderà dall’affermare!

Ciononostante, osserva che la produzione di alcuni motti può provenire dal bisogno di esibirsi, di mostrare la propria perspicacia, spinta equivalente all’esibizionismo in campo sessuale, e che, per i motti tendenziosi, ci può essere una componente sadica.

Il “lavoro arguto”, cioè la produzione di motti di spirito, si caratterizza per la necessità di comunicare il risultato, come se l’autore non si divertisse gustandoselo in solitario.

Più precisamente, Freud rileva una distinzione tra il motto di spirito e il comico.

Del comico si può godere anche da soli, del motto di spirito no: è indispensabile comunicarlo ad un altro, a qualcuno che lo ascolti, lo capisca e si diverta.

È come se il piacere di chi inventa o racconta un motto di spirito fosse un riflesso del piacere altrui.

In una nota in margine al testo Freud dà una spiegazione del riso.

“Vorrei offrire un unico contributo al tema [la spiegazione del quadro somatico del riso], trattato distesamente già prima e dopo Darwin ma mai risolto definitivamente, della spiegazione fisiologica del riso, alla questione cioè di sapere donde derivino o come si possano interpretare le azioni muscolari caratteristiche del riso. A quanto so, la smorfia di contrazione degli angoli della bocca che distingue il riso compare anzitutto nel lattante soddisfatto e sazio quando, addormentandosi, abbandona il petto. Qui, è un moto espressivo genuino, poiché corrisponde alla decisione di non prendere più cibo e raffigura per così dire un «Basta» o anzi «Basta e avanza». Può darsi che questo senso originario di piacevole sazietà abbia fatto sì che il sorriso, fenomeno fondamentale del riso, mantenga la relazione successiva con i piacevoli processi di scarico.”

Qui non so a che cosa si riferisca con la parola “scarico”.

Forse la spiegazione si trova nella frase seguente: “Direi che il riso sorge quando un ammontare di energia psichica, prima usato per investire certe vie psichiche, è diventato inimpiegabile, così che può sfogarsi in una libera scarica.”

Mi sembra di capire che Freud aveva una concezione meccanica (elettromeccanica) della psiche, come fosse una macchina che si carica di energia psichica e, superata una certa soglia, ha bisogno di scaricarla.

Il riso è una delle attività che servono a questo scopo.

Qui c’è una precisazione importante: Freud ammette di non sapere a quali componenti organici possano associarsi queste grandezze; lo studio delle cellule nervose, ai suoi tempi, era solo all’inizio. Ora che ne sappiamo molto di più di neuroni, sinapsi, neurotrasmettitori, credo che non siamo molto più avanti nella conoscenza dei rapporti tra le strutture organiche e il funzionamento della psiche.

Segue una serie di ragionamenti arzigogolati che non meritano la concentrazione necessaria per interpretarli, e si seguono intrecciandosi tra di loro fino alla fine di questo capitolo.

C’è un esempio che ha un suo fascino perché ci riporta esattamente all’epoca in cui Freud scriveva.

“Chi aveva prima in camera una lampada a gas e ha adottato adesso la luce elettrica, proverà per parecchio tempo un netto senso di piacere ogni volta che girerà l’interruttore elettrico, e precisamente fin quando – nel compiere quel gesto – gli torneranno alla mente tutte le complicate manovre necessarie per accendere la lampada a gas.”

“Ha adottato adesso la luce elettrica”, dice. Meraviglioso!

Il passaggio dalla lampada a gas alla luce elettrica, dalla complicazione alla semplicità di girare un interruttore, poi di un clic; una sensazione, una gioia, di cui abbiamo perso la memoria, che Freud e i suoi contemporanei tenevano ben presente.

C. Parte teorica

CAP.6 La relazione del motto con il sogno e con l’inconscio

Come già detto, la costruzione dei motti di spirito presenta straordinarie somiglianze con il “lavoro onirico”.

“Noi conosciamo il sogno per il ricordo, di norma apparentemente frammentario, che ce ne resta dopo il risveglio. Il sogno è allora un tessuto di impressioni sensorie perlopiù visive (ma anche di altra natura) che ci hanno dato l’illusione di un avvenimento vissuto e alle quali possono essere frammisti processi di pensiero (il “sapere” del sogno) e manifestazioni affettive. Io definisco contenuto onirico manifesto ciò che noi rammentiamo come sogno.”

Prima di Freud si riteneva che quell’insieme di immagini e di nostre manifestazioni affettive, quella specie di film (così ci appare nel ricordo) in cui siamo contemporaneamente attori e spettatori, fosse il risultato di un’attività frenetica e priva di controlli che le nostre cellule nervose svolgono durante il sonno.

Continua