30 ottobre 2021 h 18.15
Cinema Teatro Odeon Firenze – piazza degli Strozzi

Altro film del regista: // Dolor y gloria //

Famiglia (genitori e figli)
// La sala professori (la scuola è un’estensione della famiglia) // Enea // Club Zero // Come pecore in mezzo ai lupi // Ritorno a Seul // Beau ha paura [Beau is afraid] // Miracle: Letters to the President // The Whale // Le vele scarlatte // The Fabelmans // Marcel! // True mothers // Una vita in fuga // One second // Cry Macho // È stata la mano di Dio // Madres paralelas // Raw /e/ Titane // Tre piani // La terra dei figli // Favolacce // Tutto il mio folle amore // Un affare di famiglia // La stanza delle meraviglie // Lady Bird /e/ Puoi baciare lo sposo // Tre manifesti a Ebbing, Missouri //

Versione originale con sottotitoli in italiano.
All’uscita dal cinema ho nelle orecchie la melodia della bellissima lingua spagnola, mentre giro per il mercatino allestito in piazza Strozzi, dove ho comprato un copricapo invernale di lana alpaca (100%), lavorato a mano da un’allevatrice del ruminante andino che si è ambientato da più di trent’anni in Toscana (Azienda Agricola “La Valle degli Alpaca” – Strada della Valle, Barberino Val d’Elsa).
Dal produttore al consumatore, dal corpo dell’alpaca alla mia testa, passando per le mani di questa gentile signora che lavora la lana con la pazienza, la precisione, l’esattezza antiche.
La signora mi ha spiegato tutto sugli alpaca: vivono circa venti anni; hanno bisogno di poca erba, anche se danno l’impressione di mangiare in continuazione, perché ruminano; non strappano l’erba, come le capre, ma la tagliano, dunque non distruggono il prato, non si arrampicano sugli alberi. Non sputano, come i loro cugini camellidi (stessa famiglia dei cammelli e dei dromedari), i lama.
Tante altre cose mi ha spiegato, molto, ma molto interessanti.

Il suo entusiasmo mi ha fatto venire la voglia di allevare gli alpaca, ma, purtroppo, ho solo un piccolo orto.
Il copricapo tiene caldo, protegge bene dal freddo, per cui suppongo (ho dimenticato di chiederglielo) che l’allevamento degli alpaca non richieda particolari accorgimenti per il riscaldamento invernale delle stalle. Mi informo sempre sui dettagli quando mi viene la voglia di avviare un’attività, come se dovessi avviarla il giorno dopo.
Gli alpaca non sono utilizzabili come produttori di latte, mi ha detto la signora, perché le femmine hanno mammelle piccole che si mungono con difficoltà e producono poco latte, solo il necessario per i nuovi nati.
Capita che una femmina “dimentichi” un cucciolo appena nato. Può capitare con una primipara, che non ha ancora acquisito certi comportamenti; allora la signora Antonella, con fatica, riesce a mungere un po’ di latte e a nutrire il neonato con un biberon fino a che la sventata capisce (l’istinto le ricorda) il proprio dovere.
Ho immaginato una scena dolcissima: la signora, nella stalla, seduta su una sedia di paglia, dà il latte al cucciolo neonato mentre la mamma alpaca gira intorno, poi si avvicina per prendere il posto che le spetta.
Tante altre cose mi ha raccontato.

Il film è molto bello; nella costruzione degli ambienti e delle situazioni Almodóvar conferma il suo marchio di fabbrica: precisione, attenzione ai dettagli, esattezza.
L’esattezza è uno dei valori letterari che Italo Calvino individuò, poco prima di morire, nelle Lezioni americane; sottotitolo: Sei proposte per il prossimo millennio. Prossimo nel 1985, quando le lezioni furono concepite.

Il libro, curato dalla vedova, Esther Judith Singer Calvino (Chichita), fu pubblicato nel 1988.

Ora che il millennio è avviato e ci ha fatto scoprire novità, nel bene e nel male, inaspettate – chi avrebbe immaginato, al di fuori di un libro o di un film di fantascienza, una pandemia di questa portata? – Lezioni americane (prima edizione Garzanti) mi guarda da uno scaffale della libreria come se provenisse da un altro mondo: costava lire 20.000 (per qualche ragazzo che si trovasse a leggere: equivalgono a 10 euro).
Eravamo diversi allora (ovviamente).
A parte i cambiamenti fisici determinati dal tempo, la prima diversità che mi salta agli occhi della memoria è questa: compravo un giornale al giorno, a volte due, nell’edicola, e ogni tanto un settimanale. Li compravo e li leggevo, da capo a fondo. Parlo di occhi perché vedo quel giovane aitante («Non so se faceva l’aiutante», direbbe Totò) avvicinarsi all’edicola, curiosare sui giornali esposti, entrare, comprare, poi cercare un posto tranquillo dove leggere: di solito il tavolino di un bar, davanti a un caffè o a un cappuccino. Era un momento rilassante della giornata, una pausa dalle situazioni immediate e a corto raggio.
Quel giovane mi sembra un’altra persona.
Il rito giornaliero non esiste più; sfoglio i giornali online (si assomigliano tutti) fermandomi su qualche articolo: navigo, come si dice. La metafora serve, spesso, a nobilitare attività abbastanza banali.
Se passo per l’edicola in piazza Buonaparte è per spedire un fax per una pratica burocratica: la burocrazia, si sa, è sempre in ritardo rispetto alla realtà e i burocrati sono gli ultimi a chiedere i fax.
Mentre aspetto non do un’occhiata ai giornali, alle riviste ammonticchiate tra i giocattoli, ai libri incellofanati, che si assomigliano tutti. Non invidio più l’edicolante che può leggere fra una cosa e l’altra, nei momenti di pausa (un’altra attività che mi sarebbe piaciuto avviare, in passato). Credo che ora si annoi.

È il progresso bellezza! Prima l’edicola, ora internet e lo schermo dello smartphone.
Niente da ridire, però, rileggendo il libro di Italo Calvino, richiamato dalla esattezza di Almodóvar e della signora allevatrice di alpaca, viene da chiedersi se abbiamo portato nella nostra vita artistica individuale (ognuno ha una vita artistica) e se riconosciamo nella vita, in generale, di cui la letteratura è un elemento fondamentale, i valori letterari che lui proponeva come eredità da trasferire nel nuovo millennio.
Le proposte, scritte a penna, in inglese, riportate nella prima pagina del libro (probabilmente intendeva elencarle nella lingua degli ospiti per poi svolgerle in italiano) sono: Lightness (Leggerezza), Quickness (Rapidità), Exactitude (Esattezza), Visibility (Visibilità), Multiplicity (Molteplicità), Consistency (Coerenza).
Non sappiamo con certezza che cosa Calvino intendesse con l’ultima parola, perché non riuscì a sviluppare la lezione corrispondente: morì il 18 settembre 1985, poco prima di partire per l’Università di Harvard, dove avrebbe tenuto le lezioni.
La vedova trovò tra le sue carte le cinque lezioni completate. Nell’introduzione dice che Calvino avrebbe voluto svilupparne otto e dell’ottava ricorda il titolo: Sul cominciare e sul finire (dei romanzi).
Il titolo è già di per sé una lezione. Ho sempre pensato che non è un caso se ricordiamo tutti l’inizio di Anna Karenina, i versi iniziali e i versi finali della Divina Commedia, le prime parole di La Metamorfosi di Kafka, l’inizio del Genesi e quello, meraviglioso (“In principio era il Verbo / e il Verbo era presso Dio / e il Verbo era Dio”), del Vangelo secondo Giovanni. Altri incipit e altre espressioni finali dei romanzi mi sono rimaste nella memoria. Quando devo decidere se comprare un libro, salto l’introduzione (la leggo alla fine se il libro mi è piaciuto), leggo l’incipit e le ultime frasi. Ero convinto di poter decidere la qualità di un film dalle prime scene; qualche recente esperienza mi ha tolto tanta sicurezza.
Calvino mi avrebbe sicuramente aiutato a capire perché l’inizio e la fine dei romanzi (non solo) mi sembrano tanto importanti.

Al primo posto tra i valori letterari da trasmettere al nostro millennio, secondo Calvino: la leggerezza.
Questo millennio è cominciato con una grande affermazione della leggerezza, in tutti i campi: basta confrontare i giornali di carta con i giornali attuali, i computer di allora con i computer attuali, i telefoni di allora con i telefoni attuali.
Ogni esempio porta a un unico ambito: l’informatica.
Assodato che l’hardware è diventato e continuerà a diventare sempre più piccolo, miniaturizzato, leggero, dovremmo chiederci se il diffondersi dell’informatica, degli algoritmi, delle applicazioni, stia rendendo la nostra vita, in generale, e la nostra vita artistica, in particolare, più leggera.
Dall’ultima mostra dedicata a Jeff Koons nel Palazzo Strozzi, a Firenze, non ho avuto questa impressione, se la confronto con la mostra precedente sull’arte americana fra il 1961 e il 2001. Ma anche, soprattutto, andando più indietro. È vero: Jeff Coons ha operato a partire dagli anni settanta, non è proprio un artista del duemila. Ma, purtroppo, ha debordato fino ai giorni nostri.
Noto che almeno un pittore di questo millennio (sul suo sito i quadri più vecchi risalgono al periodo 2000 – 2005), Mauro Reggio, predilige la sottrazione (Mauro Reggio official site).

Nella vita di relazione la pandemia ha contribuito a rendere le cose molto più pesanti di prima.
Quando ci libereremo da questa pesantezza? Al momento non si sa.

L’esattezza è un valore che certamente Pedro Almodóvar ha fatto suo.
Nel film c’è addirittura la spiegazione della ricetta per preparare la tortilla de patatas, che mi ha fatto venire una gran voglia di questo piatto tipico della cucina spagnola. Si lavano le patate, si tagliano in strati sottili … sentivo quasi il buon odore quando è uscita dal forno.
Mi sono detto che devo cercare un ristorante spagnolo a Firenze, non di quelli finti, come le finte pizzerie napoletane con il cuoco egiziano o irlandese, o i finti pub londinesi.
È una delle cose da fare: mò m’ó scrivə (ora me lo scrivo), direbbe Massimo Troisi.

Il film ha due temi: la maternità e la memoria. Sono i temi di Pedro Almodóvar, da sempre.
La protagonista principale, Janis, interpretata dalla splendida Penelope Cruz, nel film è non solo la bella donna, sexy, che ammiriamo da tanto. Soprattutto è madre; madre un po’ di tutti i personaggi.
Nel rapporto con gli altri si pone sempre con un atteggiamento materno: è ferma, decisa, ma pronta a capire le ragioni dell’altro, a sostenerlo anche quando non si comporta come lei vorrebbe. È la madre da cui tornare quando si è felici e quando si è così infelici da desiderare solo di abbandonarci tra le braccia di una persona che ci accetta come siamo e non ci chiede niente. Credo che solo dalla madre, non importa se biologica o non, possiamo aspettarci tanto.

Incinta per caso – o per scelta, non sappiamo – di un uomo sposato che ha una complicata situazione familiare, Janis vuole la figlia che porta in grembo, nonostante lui le chieda di abortire.
Non va in crisi, non scarica sull’uomo tutte le responsabilità: il rapporto sessuale l’hanno deciso in due, la figlia è di entrambi, lui preferirebbe liberarsene, lei vuole tenerla. Ho quasi quarant’anni, dice, non voglio aspettare per essere madre, mi occuperò da sola di mia figlia, tu non avrai problemi.
In ospedale si trova nella stessa stanza di una ragazza, Ana, non ancora maggiorenne, rimasta incinta in una situazione di stupro.
Con lei la donna matura stabilisce da subito un rapporto materno, che non escluderà, in seguito, qualcosa di più intimo, cercato soprattutto dalla ragazza giovane e sola.
Le due donne partoriscono e poi affrontano con amore le difficoltà, i problemi di due ragazze madri.
Janis ha un lavoro, fa la fotografa, è apprezzata, ben inserita nel suo ambiente, è autonoma e se la cava meglio della ragazza giovane, figlia di una donna egoista che vuole piacere a tutti (si dichiara apolitica) e di un uomo distante, desideroso unicamente di liberarsi dei problemi causati da una figlia ingombrante.
Janis fa un controllo del DNA, per togliersi un dubbio suggerito dal padre della bambina con il quale continua ad avere un rapporto di amicizia e di stima, motivato anche dall’impegno politico comune a ricercare la memoria dei martiri della guerra civile spagnola.
Scopre che la bambina non è sua figlia biologica. Nell’ospedale è avvenuto uno scambio tra le due neonate: la figlia di Ana a lei, la sua ad Ana.
Su questa scoperta si svolge l’intera vicenda e il film ci coinvolge, ci emoziona, con i suoi toni teatrali, melodrammatici, che, insieme ai colori, ai suoni, agli abbracci, mi ricordano un altro popolo che ha molto in comune con il popolo spagnolo.
Alla fine le cose si aggiustano “alla napoletana” e Almodóvar ci fa ammirare una bella famiglia allargata.

In parallelo procede l’indagine, come un racconto poliziesco, per individuare i resti degli uomini che, durante la guerra civile spagnola, furono portati via da casa, costretti a scavare la fossa, legati con filo spinato, uccisi.
Bella la reazione di Janis quando Ana, che proviene da un ambiente superficiale, probabilmente di destra, afferma che è il caso di dimenticare il passato (come dice suo padre).
Janis risponde che i martiri, anche dopo tanti anni, hanno il diritto di essere portati via da quella fossa comune per ricevere una degna sepoltura. La nipote, che non ha potuto conoscere il nonno e sa quante lacrime sono state versate sul suo ricordo, ha il diritto, insieme agli abitanti del villaggio, di fare un funerale per ricordare quegli uomini che non riuscirono a proteggere se stessi e le loro famiglie dalla furia dei franchisti.
Bisogna fare i conti con il passato, perché la storia si ripete tre volte, non due, come sembra abbia detto Marx, la prima come tragedia, la seconda come farsa, la terza come tragedia peggiore della prima. Dobbiamo stare attenti, perché la tragedia sembra lontana e qualcuno vorrebbe farla dimenticare, la farsa sembra passata: i nazionalismi ottusi, i sovranismi egoisti, gli aspiranti ducetti pare stiano finendo nel ridicolo (speriamo!).
Attenti al lupo!