6 febbraio 2023 h 17.00
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto
Film brutti. Decisamente brutti
// Dall’alto di una fredda torre // The Fall Guy // Civil War // Enea // Chi segna vince // Un uomo felice // La guerra del Tiburtino III // Mi fanno male i capelli // Felicità // L’ordine del tempo // Educazione Fisica // Il primo giorno della mia vita // Vicini di casa // War La guerra desiderata // Dune // Domani è un altro giorno // Dead in a week // Una vita spericolata // Doppio amore [L’amant double] // Sono tornato //
“Il primo giorno della mia vita”, regia di Paolo Genovese.
Un film di una tristezza infinita. Black comedy priva di umorismo, riflessione filosofica priva di profondità, favola priva di leggerezza. Parla di suicidio.
La morte è un mistero, ma i personaggi del film sono morti, qualcosa dovrebbero sapere più di noi, vivi e sprofondati nelle poltrone! Non sanno nulla.
Non appena hanno compiuto l’insano gesto, i suicidi sono raggiunti da un personaggio misterioso che ha il volto ironico di Toni Servillo (non ci crede neanche lui), li raccoglie con modi bruschi, tono perentorio: «Non voltarti indietro», «Sali in macchina».
Mentre il corpo giace abbandonato nel letto, è riverso sui sedili della macchina, sballottato dalle onde, schiacciato sull’asfalto, sminuzzato sui binari, appeso a una corda munita di cappio, il suicida viene prelevato, fatto entrare in una macchina insieme ad altri morti, condotto in un albergo. Se non fossero anime sarebbe un rapimento.
Il rapitore risponde alle domande in modo vago e generico, non svela le carte. Per i suicidi la morte deve continuare a essere un mistero.
Se dopo morti si trova un tipo autoritario che ti mette in macchina e ti porta dove dice lui, io preferisco non morire. Da vivo voglio scegliere l’albergo dove vado a dormire, non lo faccio scegliere a un altro. Figuriamoci da morto!
Il personaggio misterioso guarda i suicidi come fossero bambini che hanno commesso una marachella e fa la sua proposta (la chiama patto): osservate ciò che succede nella prima settimana dopo la vostra morte; se cambiate idea potrete fare marcia indietro. Vi diamo una possibilità: guarderete il mondo che va avanti senza di voi (chiaro riferimento a “La vita è meravigliosa” di Frank Capra). I vivi non potranno vedervi. Dopo una settimana deciderete se annullare tutto (il suicidio e ciò che ne è seguito) o confermare la scelta; se confermate, la scelta sarà definitiva. Il regista inquadra la macchina che gira con i cinque personaggi; si vede solo l’autista. «Come mai ti possono vedere?» chiede il ragazzino; «Sarebbe strano se andasse in giro una macchina senza autista» risponde il personaggio misterioso, e si fa una risatina.
Hanno pensato a tutto, come in un film. Ma siamo in un film! O forse in un programma televisivo comico. Come dicevano alla fine? «Sei su Scherzi a parte».
Proviamo a ragionare sulla trama (si ragiona sulla trama quando il film è brutto; di un film che ci cattura siamo disposti ad accettare le assurdità).
Se il suicida si pente del gesto compiuto, avendone valutato le conseguenze, il tempo torna indietro di una settimana. La settimana sparisce, non solo nella vita del suicida e dei suoi contigui (parenti, vicini di casa, compagni di lavoro, amici), nella vita di tutti gli abitanti della terra.
Questa è una conseguenza logica che mi sembra di poter trarre dalla trama del film, anche se non è resa esplicita.
Supponiamo che i rami di una pianta, in quella settimana, si siano allungati di dieci centimetri. La pianta, in conseguenza del ripensamento del suicida, si ritrova con i rami più corti. Miliardi di bambini, nati in quella settimana, spariscono; miliardi di morti resuscitano, anzi: non sono morti. Viene portato indietro il movimento di rotazione della Terra e dei pianeti; tutto ciò per il ripensamento di un solo suicida.
Si potrebbe pensare che tornino indietro solo gli avvenimenti che riguardano quella persona. Le cose che accadono agli uomini si trovano in una rete di relazioni, ogni nodo è collegato ad altri, fino a coprire tutti gli abitanti della terra, le cose viventi e non viventi. Se in quella settimana uno ha scavato un buco nel terreno, il buco sparirà e il suolo, in quel punto, tornerà com’era prima.
La ragazza cinese che sta dormendo in treno, accucciata sul sedile di fronte al mio, se viene eliminata questa settimana non avrà viaggiato in treno da Pisa a Firenze e non avrà fatto buona parte del viaggio accucciata sul sedile di fronte al mio. Se all’arrivo in stazione riceverà una chiamata da Pechino, insieme al viaggio si annullerà la telefonata. Il signore che, a Pechino, ha detto a un amico (traduco dal cinese): «Ho chiamato mia figlia in Italia; domani parto per Firenze» non l’avrà detto, e il giorno dopo non sarà partito per Firenze, perché il giorno dopo non esiste più: un suicida ha accettato la proposta del personaggio misterioso e la settimana è sparita: «D’accordo, mi hai convinto, voglio tornare indietro. Cancella pure questa settimana di merda!».
Può darsi che nella settimana successiva le cose si concatenino come si erano concatenate nella settimana perduta, ma non è detto. Probabilmente molti dei bambini che erano già nati emetteranno il primo vagito (in realtà il secondo), ma non tutti.
Moltiplicando gli effetti per il numero dei suicidi su tutta la Terra – solo nel film ce ne sono quattro, a ognuno viene proposto di tornare al momento precedente il suicidio, alla fine accettano in tre – si creano sconvolgimenti a catena del tempo, che va avanti e indietro, sconvolgimenti difficilmente gestibili da una ASL.
Questa della ASL l’ho pensata io, non è nel film. Dal momento che i due personaggi misteriosi che gestiscono le proposte ai suicidi, un uomo e una donna, hanno un aspetto e un comportamento impiegatizi (la donna dice a Toni Servillo: «Non mangiare troppo che ti fa male!», con il tono di chi pensa: «Non mangiare in orario di servizio!»), mi sono chiesto da quale ente supremo sia gestita l’attività.
Escluso il comune, troppo incasinato a risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti, ho pensato che ad amministrare il tutto siano le ASL locali, che si coordinano a livello mondiale. Una cosa facile facile.
Gli impiegati gestiscono un albergo chiuso (Toni Servillo, alla fine, toglie la polvere, chiude le camere, mette a posto le chiavi) dove ricoverano i suicidi nella settimana di prova e passano un po’ di tempo insieme a loro.
Un buon lavoro, ben pagato, suppongo. Bisogna prelevare i suicidi dopo che hanno compiuto l’insano gesto, portarli in macchina all’albergo, assegnare le camere.
«Buona notte», «Buona notte», «Ci vediamo domani».
C’è la stanza da bagno, ma dai rubinetti non esce l’acqua. I suicidi non hanno bisogno di lavarsi, di mangiare, tirare lo scarico, spazzolarsi i denti.
Però vanno a dormire nei letti, e, nel giorno della gita al mare, mangiano con gusto gli spaghetti allo scoglio, cucinati dal personaggio misterioso; nel pomeriggio la ragazza sorbisce il gelato.
Dunque si suppone che, almeno in quel giorno, debbano lavarsi, andare in bagno, eccetera. Si suppone che la ragazza in carrozzina abbia bisogno di aiuto.
Chi l’aiuta a svolgere le faccende che un corpo richiede? – Mi viene un dubbio: vuoi vedere che è un film comico? Tipo? Tipo il titolo di quel film con Bud Spencer e Giuliano Gemma: Anche gli angeli mangiano fagioli.
Dal momento in cui si sono suicidati e sono entrati in albergo si avvia il conto dei giorni; sullo schermo appaiono le scritte: primo, secondo, eccetera.
Nei giorni successivi vanno a vedere, non visti, il recupero del corpo nel fiume, i parenti in lacrime, gli amici che commemorano e brindano alla persona defunta; assistono alla funzione religiosa, si siedono al tavolo, invisibili, tra la vedova inconsolabile e l’amico del morto desideroso di consolarla. Qui viene fuori la comicità involontaria, che ci fa ridacchiare contro le intenzioni del regista. Se fosse seduto nella poltrona accanto s’incazzerebbe con noi, ma dovrebbe incazzarsi con gli sceneggiatori e con se stesso.
Napoleone – il personaggio interpretato da Valerio Mastandrea – oltre ad avere un nome poco comune, quando era in vita aveva un lavoro poco comune: faceva il motivatore. Alla fine del film, dopo avere confermato il suicidio (a uno su quattro si doveva farlo confermare), svolge il lavoro di Toni Servillo, per il quale ha dimostrato, nella famosa settimana, una certa attitudine.
Vediamo una ragazza che sta per buttarsi nel fiume e lui, tranquillo, pronto a entrare in azione.
Forse è stato Toni Servillo a raccomandarlo alla ASL: «Vuole confermare il suicidio, si scoccia a tornare indietro. Fatti suoi. È bravo e ha esperienza come motivatore. Assumetelo!».
Napoleone è l’unico di cui non si conoscono i motivi che lo hanno spinto al suicidio. La moglie gli vuole bene, nel lavoro ha successo. Chissà che gli manca!
Forse ha la sensazione, non lontana dalla realtà, di partecipare a una truffa organizzata e si uccide perché sopraffatto dai sensi di colpa.
Nel video, su uno dei numerosi televisori dove i suicidi possono vedere scene della propria vita, Napoleone è impegnato nel lavoro di motivatore: si rivolge a un vasto pubblico che ha pagato per essere motivato. Un giovane, trasportato dall’entusiasmo, canta Alleluja di Leonard Cohen. Verso la fine rivediamo quel giovane: è un cantante di strada pagato per dare credibilità alle parole del motivatore. Si rivela la montatura costruita per spillare soldi agli ingenui.
Nel primo incontro organizzato dall’azienda dopo il suicidio, condotto da un collega di Napoleone, la vedova, seduta tra il pubblico, si alza per dire che quell’attività è tutta un imbroglio.
È strano che non la blocchino e che lei continui a manifestare amicizia nei confronti del collega del marito, l’amico del morto che spera di sostituirlo nel cuore e nel letto della vedova. Dall’intervento della donna si capisce che disprezza quell’ambiente e ha capito per quale motivo il marito si è suicidato. Eppure continua a frequentare il collega impegnato a nascondere l’imbroglio. È una contraddizione interna al racconto.
Napoleone defunto spia le conversazioni tra la moglie e l’amico (si siede al tavolo senza essere visto) e così scopre che la donna aspetta un bambino. Ciononostante è deciso a non fare un passo indietro e, per affrettare i tempi, si butta sotto il treno. Ma è già morto e il secondo suicidio non vale: è la regola ricordata dall’impiegato Servillo (mancavano solo i suicidi a ripetizione per complicare le cose).
Del personaggio interpretato da Toni Servillo non conosciamo il nome; la ragazza che, per buona parte del film, si muove su una sedia a rotelle, lo chiama “coso”. Tutti hanno il dubbio: sarà un angelo? Forse perché hanno visto il capolavoro di Frank Capra.
Tecnicamente i suicidi sono tre (oltre a “coso”, che svolge il suo lavoro in quanto nel curriculum ha un suicidio, quindi non è un angelo). Il quarto personaggio è un ragazzo che ha cercato di ammazzarsi in un modo curioso: ha mangiato un numero enorme di paste, pur soffrendo di diabete, e non ha fatto l’iniezione di insulina.
Il padre è fermamente intenzionato a sfruttarlo su youtube facendogli mangiare paste in continuazione («tanto», dice, «prende l’insulina»). Il medico che cerca di salvare il ragazzo non denuncia l’uomo, come dovrebbe, dopo la sua candida ammissione: «Gli faccio mangiare le paste per aumentare il numero dei like».
Il ragazzo non è ancora morto; deve decidere se confermare la scelta o risvegliarsi sano, dopo avere buttato le paste (chi non sopporta la rivelazione dei dettagli della trama e di “come va a finire” si fermi qui). Alla fine butterà le paste, che saranno mangiate dal cane. Avrebbe fatto meglio a chiamare il telefono azzurro per farsi liberare da quella bestia di padre che gli è capitato.
Nella giornata della gita al mare “coso” gli fa mangiare un abbondante piatto di spaghetti allo scoglio senza l’iniezione di insulina, tanto è quasi morto. Poi gli fa provare l’ebbrezza di un piccolo volo.
Per gli altri personaggi passi che il corpo morto si stia decomponendo e l’anima vada in giro. Ma il ragazzo ricoverato non è morto. Dunque ce ne sono due: uno nel lettino d’ospedale e uno che mangia gli spaghetti e va al mare insieme ai suicidi nell’unica parentesi di tempo buono che interrompe la pioggia incessante che inzuppa tutti.
La pioggia così abbondante deve avere un significato nelle intenzioni del regista. Secondo me significa: se decidete di suicidarvi, tenete pronto un ombrello. Potrebbe servire.
I tre che tornano alla vita (vanno indietro di una settimana) alla fine fanno amicizia. Immagino le conversazioni quando si rivedono: «Ti ricordi quando eravamo morti? Che risate!», «Hai visto più coso, l’innominato?», «No, il suo posto l’ha preso Napoleone; è bravo; l’innominato si è trasferito in un’altra ASL», «Se lo vedi salutamelo e ringrazialo ancora a nome mio per il miracolo della carrozzina. Lo considero un santo: “San Coso”».
Già: la ragazza ex atleta, che si era suicidata perché ridotta su una carrozzina, scopre, alla fine, di poter camminare e di riuscire a fare esercizi difficilissimi di ginnastica artistica su un parapetto pericoloso.
È ovvio che consideri “coso” un santo, o almeno un angelo.
Confrontando questo personaggio con Clarence, “l’angelo di seconda classe” che salva George (James Stewart) nel film di Frank Capra La vita è meravigliosa (1946), ci rendiamo conto di quanti passi indietro abbia fatto l’arte cinematografica in pochi decenni. Pare si sia persa la capacità di raccontare una favola.
Quante favole ci hanno raccontato al cinema! Tante.
Credevamo alle cose più assurde in quell’ora e mezza, perché il regista le sapeva raccontare: con ironia, con poesia, suscitando emozioni.
Importante non è che la trama sia verosimile, ma che non contenga contraddizioni interne.
I bambini ci fanno mille obiezioni se cominciamo a contraddirci quando raccontiamo le favole. Capiscono se non crediamo alla verità profonda del racconto.
Possibile che, al giorno d’oggi, molti registi riescano solo a imbastire una trama deprimente che non regge da nessun punto di vista?