20 aprile 2023 h 15.30
Cinema Flora Atelier Firenze – piazza Dalmazia, 2r
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“Il Sol dell’Avvenire”, regia di Nanni Moretti; visto al cinema e reperibile su RaiPlay.
Con questo film Nanni Moretti è tornato, non come Michele Apicella, come avevo temuto guardando il trailer.
L’alter ego del regista non è più il personaggio della sua, e nostra, giovinezza. È un uomo alle soglie dei settant’anni che ha sperimentato (come tutti noi) delusioni e sconfitte politiche, ha conservato la speranza e raggiunto la calma, nonostante ogni tanto si lasci andare ai guizzi isterici di quando era giovane.
È tornato l’autore capace di sorprenderci – ogni tre, quattro anni – con un film accurato, preciso come un’espressione matematica. Sono diventati mitici i ciak ripetuti tante volte fino a determinare, per sfinimento, la sfumatura esatta di una battuta.
Ogni film di Nanni Moretti ruota intorno a un argomento che in quel momento lo ossessiona. Non ci vuole molto a capire che il tema principale, questa volta, è la vecchiaia.
Ci sono anche, ma sono il contorno, i soliti argomenti “suoi”: la politica, l’amore, i rapporti di coppia, la famiglia desiderata, sognata – non solo la sua, anche quella degli altri. La famiglia che vorrebbe perfetta e lo delude sempre.
L’alter ego si chiama come lui (Giovanni), è un regista, ha le fissazioni che conosciamo e un rapporto affettivo da trent’anni con la moglie (Margherita Buy). La moglie fa il lavoro di produttore dei suoi film e dei film di un giovane regista che sembra poco intelligente (a Nanni piace vincere facile nel confronto).
Il rapporto coniugale è in crisi, ma lui non se n’è accorto; non sa che la moglie si è rivolta a uno psicanalista che sembra uno di quei preti confessori di altri tempi, quelli che davano consigli alle casalinghe.
La figlia musicista vuole sposare un uomo molto più grande di lei. Si ha il diritto di essere infelici se una figlia se ne va con un giovane sbalestrato; si può essere contenti se la ragazza si innamora di uno tranquillo che sembra più vecchio del padre? Forse la ragazza era in cerca di una stabilità, di un equilibrio che non ha trovato in famiglia.
Davanti al cinema Flora in piazza Dalmazia ci sono diversi “giovani” della mia generazione. Si assomigliano al punto da sembrare varianti della stessa persona. Linguaggio, esperienze, ricordi comuni. Nell’attesa dell’apertura della sala ci è venuto spontaneo scambiare quattro chiacchiere tra vecchi amici che a mala pena si conoscono ma si riconoscono fratelli, più che fratelli: compagni di scuola. Mi sembrava di vedere gli stessi di tanti anni prima, convenuti in un’altra piazza, di un’altra città, per la prima visione di un film di Nanni Moretti.
Solo qualche segno di invecchiamento: il bianco dei capelli e della barba negli uomini, una contrattura dei movimenti dovuta alla tendenza all’osteoporosi nelle donne. In fondo la nostra generazione se la sta cavando abbastanza bene: non abbiamo conosciuto le durezze della guerra vissuta sulla propria pelle, siamo stati cresciuti con la “pastina glutinata buitoni”, con i formaggini, abbiamo fatto – chi più chi meno – ginnastica, allenamenti e in vecchiaia abbiamo il paracadute costituito dalla pensione.
Un altro segno del tempo che passa: prima che si spegnessero le luci abbiamo tenuto d’occhio la porta della toilette, per evitare la noia della fila.
Alcuni erano in coppia. Mi sarebbe piaciuto scoprire il loro pensiero intimo quando Margherita Buy ha detto: «Parliamo di tante cose, non parliamo mai di noi». Mi sono anche chiesto quale fosse la loro reazione quando lei ha deciso di separarsi, nonostante continuasse a volergli bene e a sopportarlo (onestamente il personaggio ha dei tratti insopportabili).
Nanni Moretti ci ha sempre spinti a guardarci nello specchio e a prenderci in giro: da giovani, da adulti e anche ora, da vecchi.
Ho ritrovato lo stile che ci ha fatto innamorare dei suoi film tanti anni fa, la sua capacità di raccontare in modo non lineare, di passare da un piano all’altro senza preavviso e senza farci perdere la concentrazione.
Si seguono con attenzione i suoi film, dall’inizio alla fine, non ci si annoia, come invece accade con i registi che si impegnano a rendere accettabile il racconto e riescono solo a renderlo prevedibile.
I film di Nanni Moretti sono puro cinema, cinema liofilizzato: basta aggiungere un po’ di acqua e i personaggi prendono vita. Vorrei usarli come esempi per dire che un film è fatto bene se in quell’ora e mezza non faccio caso alle assurdità che contiene. Artista non è chi copia la realtà, ma chi la crea.
Ogni svolta del racconto sorprende e, in molti punti, emoziona. I cantautori della nostra giovinezza, una bella canzone di Noemi, Aretha Franklin nei Blues Brothers, i miti del cinema – tanti – primo tra tutti: Federico Fellini.
C’è l’allegria di Nanni Moretti e l’atteggiamento di chi può essere insicuro su tutto, ma non sui fondamentali. Quelli non si toccano, sono come i dieci comandamenti. Il regista (personaggio) rifiuta la conclusione prevista, che sarebbe stata apprezzata dai nuovi produttori coreani, dopo che il produttore francese è andato in galera per i soliti imbrogli e Netflix ha deciso che il film ha una combustione troppo lenta per raggiungere i 190 paesi coperti dalla piattaforma di streaming.
Il segretario di una sezione romana del PCI non si impiccherà per essere stato lasciato dalla moglie e dai compagni che non accettano l’adesione vigliacca alle direttive di Mosca e alle direttive di Togliatti (e della direzione del partito) che imposero, nell’autunno del 1956, l’accettazione dell’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe sovietiche.
La storia non si fa con i se, ma se i compagni si fossero ribellati a questa imposizione, il segretario non sarebbe andato in depressione e probabilmente la classe operaia non sarebbe stata sconfitta. In seguito l’accusa, giusta, che sconfisse la classe operaia fu: siete come i fascisti contro i quali avete combattuto, volete sostituire una dittatura con un’altra.
I sinceri democratici si allontanarono dal PCI – Italo Calvino, Giuseppe Di Vittorio, segretario della CGIL, Antonio Giolitti, Elio Vittorini, Carlo Levi – e furono coperti di contumelie su L’Unità.
«Stalin era un dittatore e nel mio film non lo voglio vedere». Strapp. Qui ci sarebbe voluto un applauso spontaneo (non ho avuto il coraggio di avviarlo, temendo la brutta figura se fossi rimasto io solo ad applaudire).
«Stalin era un dittatore e nella sede del mio partito non lo voglio vedere». Strapp.
Se questa battuta l’avessero pronunciata i segretari delle sezioni del PCI e i militanti quando si sapeva chi era Stalin (XX Congresso del PCUS, 25 febbraio 1956, denuncia dei crimini di Stalin), la storia del movimento operaio italiano sarebbe andata in modo diverso e le sezioni si sarebbero liberate delle teste calde che non avevano acquisito un concetto fondamentale: la democrazia è una conquista della classe operaia.
Il regista sta girando un film su una sezione romana del partito comunista negli anni cinquanta. Per l’esattezza nell’autunno del 1956, nei giorni in cui l’Unione Sovietica invadeva l’Ungheria.
Gli attori continuamente entrano e escono dai personaggi che interpretano; Silvio Orlando e Barbora Bobulová sono marito e moglie, sono compagni del PCI, lui è il segretario della sezione; escono dal personaggio e sono due attori che si amano e si scambiano effusioni.
Il filo conduttore è chiarissimo, come in tutti i film di Nanni Moretti, nonostante i continui passaggi tra molteplici piani (complicato contarli).
Dentro alla cornice (politica, amore, famiglia, Netflix, film violenti) il tema è la vecchiaia.
Nel mondo di oggi la vecchiaia è la condizione a cui si fa più fatica a rassegnarsi. È più difficile rassegnarsi alla vecchiaia che alla morte.
Nella società contadina i nonni erano orgogliosi del carico di anni e di esperienze; come Anna Magnani, erano orgogliosi delle rughe.
Tenevano non tanto alla propria giovinezza perduta (probabilmente c’era poco da rimpiangere) quanto alla giovinezza della famiglia, legata alle nuove generazioni: figli, nipoti, pronipoti. Questo era un male quando diventava patriarcato, era un bene quando dava ai vecchi un riconoscimento e una funzione, un compito: rappresentare la famiglia.
«Chi fuor li maggior tui?» domanda Farinata a Dante; «A chi appartieni?» domandava qualche vecchio che incontravo da bambino nelle passeggiate solitarie in campagna. Rispondevo (in dialetto) «Sono nipote di don Mario di Mattia».
Mi veniva spontaneo riferirmi al nonno materno perché sapevo che don Mario era conosciuto dai contadini della zona in quanto fino alla morte era vissuto in campagna.
Il mio compagno di scuola, quando, nella prima adolescenza, cominciai a fare gli stessi giri insieme a lui (a volte erano due fratelli), alla domanda rispondeva: «Sono il nipote del dottor Gennaro Di Lauro, il veterinario».
Non citavamo i “maggiori” più immediati e viventi, citavamo i nonni, morti.
Il nonno rimaneva il riferimento della famiglia, finché c’era qualcuno che poteva dire «L’ho conosciuto; era tanto una brava persona».
Oggi si vive di più, ma si è dimenticati presto.
Ognuno è se stesso e nient’altro e quindi nel confronto tra gli individui conta molto di più dell’esperienza umana la capacità di capire a volo come funziona un nuovo marchingegno, di capire a che serve e come si usa un’applicazione sullo smartphone.
Se hanno trovato una strada, se sono riusciti a raggiungere l’indipendenza economica, i giovani colgono il messaggio che arriva dalla televisione (giornalisti, politici, esperti di statistica, dirigenti dell’Inps): i pensionati sono mantenuti dai lavoratori.
Dunque i vecchi o servono unicamente a mantenere i giovani (in tal caso alcuni di loro dopo morti finiscono nel congelatore di casa), o sono considerati un peso della società e qualcuno vorrebbe catturarli, sedarli e abbandonarli nei boschi del Trentino insieme agli orsi. Tra l’altro la generazione a cui appartengono i vecchi attuali ha fatto proprio l’ecologismo utopico e l’animalismo (con molte contraddizioni); sono stati loro, trent’anni fa, a reintrodurre in quei boschi gli orsi che si erano estinti, o hanno applaudito con entusiasmo a quella operazione (io ho la responsabilità dell’applauso). Dovrebbero dunque essere contenti di finire a contatto intimo con la natura che hanno contribuito a modificare sognando di riportarla a una verginità primigenia. Se gli orsi devono vivere in un bosco, bisogna provvedere alle loro esigenze alimentari, vietare la costruzione di abitazioni, regolare l’accesso, fare dei corsi e prevedere autorizzazioni per chi vuole passeggiare nel bosco.
Raggiunta la vecchiaia, Nanni Moretti in questo film la descrive, esattamente come negli altri descriveva la gioventù e l’età adulta. È un osservatore e sulle sue osservazioni ha basato le fissazioni del personaggio: di Michele Apicella e di quello attuale.
Ho notato che qualcuno le prende sul serio e non le considera un espediente cinematografico.
Le fissazioni di un giovane spariscono da vecchio o si trasformano in segni preoccupanti di demenza senile. Il vecchio rappresentato nel film da Nanni Moretti è nel secondo caso.
Proclama che odia i sabot. Per quale motivo? Perché coprono il piede davanti e non dietro. E allora? Se non vede le dita non vuole vedere il tallone. Per quale motivo? Non si sa. Il riferimento a Bianca fa capire che è uno dei tanti richiami presenti in questo film, un altro modo per dire: è cinema, non è la vita reale.
Odia le pantofole. Come mai? È un fatto estetico e porta come esempio Anthony Hopkins che in The father (un vecchio ammalato di Alzheimer) è in pigiama ma non le porta. Rifà il rumore delle scarpe di Anthony Hopkins. Ma forse il personaggio indossa le scarpe e non le pantofole proprio perché è ammalato di Alzheimer. In ogni caso siamo sempre nel cinema. Non mi meraviglierei se uscisse una foto con Nanni Moretti in pantofole. Spero di trovarla.
Rivalutiamo le pantofole. Ma sì! Niente snobismi, e freghiamocene dell’accusa “pantofolaio” che si lancia contro chi ama stare comodo. Se sei in poltrona a leggere o a guardare la televisione e porti scarponi da campo vuol dire che rimpiangi le ideologie dei tempi guerrieri: con le pantofole non si può partire alla conquista del mondo.
È bello correre o tirare calci a un pallone, ma è bello anche stare in poltrona, con indosso un poncho, come all’inizio del film, ai piedi un paio di pantofole o di freschi sabot.
Questa volta al posto della Sachertorte c’è il gelato.
Eppure ricordo che mi piacque molto la risposta che Nanni Moretti diede a un giornalista che gli aveva detto: «Alla fine di Caro Diario ordini un latte macchiato e un cornetto. Ci saremmo aspettati che ordinassi una fetta di torta».
Nanni rispose: «Si cresce», o «Si diventa adulti». Non ricordo con esattezza quale delle due fu la sua risposta, ma il significato era quello.
Si vede che da vecchi si ritorna “giovani” con tre gi (da pronunciarsi come in Ecce Bombo), nel senso di infantili.
Molto bella la parata finale, con i volti dei film di Nanni Moretti, quasi tutti quelli che ricordiamo (la truppa, per forza di cose, si è assottigliata).
Bella e emozionante, non solo per me; ho verificato: emozionante anche per alcuni dei compagni di scuola che ho ritrovato al cinema Flora in piazza Dalmazia. Diversa la scuola, diversa la città, diverso il cinema, diverso l’accento. Eppure erano praticamente gli stessi.