2 marzo 2024 h 17.15
Cinema Spazio Alfieri Firenze – via dell’Ulivo, 6
“La Storia siamo noi“
// Campo di battaglia (la prima guerra mondiale) // La zona d’interesse (la penetrazione del nazismo nelle coscienze) // Napoleon (1769 – 1821) // Oppenheimer (l’inizio dell’era nucleare) // Casablanca (amore e guerra) // Rapito (il caso Mortara) // “Buongiorno, notte” e “Esterno notte: prima parte” (stesso commento; il caso Moro) // “Esterno notte: seconda parte” (il caso Moro) // Belfast (il conflitto nordirlandese) // L’ombra del giorno (fascismo e persecuzione degli ebrei) // Illusioni perdute (la società francese negli anni della Restaurazione) // Est Dittatura Last Minute (i paesi dell’Est negli anni dell’Unione Sovietica) // 1917 (la prima guerra mondiale) // Jojo Rabbit (nazismo) // Herzog incontra Gorbaciov (la fine dell’Unione Sovietica) // Hammamet (la fine di Craxi) // J’accuse (il caso Dreyfus) // La Favorita (i guai della Gran Bretagna al tempo della regina Anna, 1708) // Cold War (la guerra fredda) //
All’inizio del film, con lo schermo nero, siamo immersi per alcuni minuti in un sottofondo musicale opprimente.
Anche l’incipit di “2001: Odissea nello spazio” è privo di immagini: solo colonna sonora.
La sensazione è diversa. Nel film di Kubrick la musica è rilassante, predispone a scene entusiasmanti che culminano nel famoso “lancio” dell’osso, sembra un femore, usato dall’ominide come arma contundente per difendersi e bastonare i nemici. Al colmo della furia il nostro progenitore lancia il femore dietro agli scimmioni in fuga. In volo, al rallentatore, l’osso si trasforma in una navicella spaziale. Sequenza magnifica che riassume l’evoluzione dell’uomo. Nel percorso da osso ad astronave manca un passaggio: la scimmia divenne uomo quando riuscì a identificare con una parola ciò che hanno in comune un osso, un ramo, un sasso usati per aggredire o per difendersi. La parola (l’astrazione) è la conquista decisiva.
Nel film che sto commentando (“La zona d’interesse”, regia di Jonathan Glazer) accade il contrario: la musica s’interrompe, lo schermo si apre; abbiamo una sorpresa: l’uomo si è trasformato in bestia. Ha ridotto la capacità di astrazione e, di conseguenza, l’empatia verso i propri simili. Per gli homo sapiens di questo film le parole “male”, “dolore”, “morte” significano cose diverse secondo che riguardino gli appartenenti al proprio gruppo (lo chiamano “razza”) o ad altri. Questo, naturalmente, è il frutto di una scelta, ma configura un arretramento della propria umanità.
Vediamo un giardino fiorito; nel giardino una famigliola: padre, madre, cinque figli.
Nonostante le apparenze sono bestioline i bambini biondi che giocano tra di loro e con i genitori; che cosa imparano dai genitori? L’ipocrisia, l’ottusità, la violenza animalesca.
È un bestione il padre che accompagna il ragazzo più grande in una passeggiata a cavallo. È più umano il cavallo del bestione che lo cavalca. L’uomo è un bestione anche quando, di sera, legge un libro di favole per agevolare il sonno della bambina.
Il giardino sembra un piccolo paradiso terrestre (mai fidarsi delle apparenze): piante, fiori, bambini, cane. Davanti al giardino un muro. Un pergolato, crescendo, dovrà nascondere alla vista il muro. Ogni tanto si sentono urli e lamenti provenienti dall’edificio vicino, comandi furiosi in tedesco che abbiamo imparato a riconoscere nei film sui lunghi viaggi dei prigionieri nei carri bestiame attraverso la parte di Europa sottomessa negli ultimi anni trenta e nei primi anni quaranta del novecento, fino ai lager nazisti.
Abbiamo capito dove siamo. Il muro che si scorge dal giardino delimita il campo di sterminio di Auschwitz; il bestione è il comandante del lager, Rudolf Höss; la bestiona è la moglie, le bestioline sono i figli.
La donna è un animale feroce, orgoglioso del giardino nel quale i bimbi crescono sani (nel corpo, ma sicuramente malati nello spirito); la bestiona porta l’ultimo nato a odorare i fiori e considera irrilevante che la cenere utilizzata per nutrire le piante e renderle rigogliose venga dai forni crematori dove sono stati bruciati i corpi degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali, dei prigionieri politici, dei malati di mente, dopo averli uccisi nelle camere a gas. La bestiona divide tra le ragazze polacche costrette a servirla le vesti rubate alle prigioniere. Trova una pelliccia, la prova davanti allo specchio, fa riparare una cucitura. Sa che quella pelliccia è stata strappata a una donna ebrea deportata. Prova un rossetto trovato nella pelliccia. Quando il marito, il bestione, viene trasferito, la bestiona va in crisi perché vuole restare in quel posto che ha costruito rubando la vita a tanta gente. «È il posto dove abbiamo sempre sognato di vivere», dice al marito con rammarico, e decide: «Io, con i bambini, non mi muovo da questa casa e da questo giardino».
La violenza arriva attutita dall’inferno fin dentro la casa del comandante del lager. Vediamo il fumo uscire dai camini. Il comandante si lava i genitali dopo avere violentato una ragazza. Poi si reca nella stanza dei bambini e legge una favola.
«Potrei dire a mio marito di ridurti in cenere se volessi» dice la moglie a una schiava polacca interpretando uno sguardo polemico.
La madre della bestiona, in visita, sa benissimo ciò che accade nel lager e non fa una piega, non muove un’obiezione; addirittura elogia la condizione in cui si trova la figlia (sposata con un personaggio “importante”). Eppure, di notte, avverte il senso di morte che aleggia sulla casa e non resiste. Va via all’improvviso, senza avvertire la figlia. Scappa via da quel posto malefico. Questo significa che i bestioni, la gente che abitava in prossimità del lager, i tedeschi che avevano sentito i discorsi di Hitler, gli italiani che avevano letto sui giornali e sentito proclamare alla radio il “manifesto della razza ariana”, conoscevano il male implicito in quelle parole, ma si autoconvincevano a non pensarci. Sapevano che quelle parole e le azioni conseguenti contraddicevano il senso di umanità che la civiltà ha costruito, ma reprimevano le obiezioni per pigrizia, per inerzia e per quel tanto di sadismo ficcato nel profondo di ognuno di noi.
Una ragazza – di nascosto, di notte – porta un po’ di cibo, delle mele, sul percorso dei poveri deportati affamati condotti al lavoro.
Il film ci fa vivere una realtà angosciosa (la vita dentro alle famiglie naziste) partendo da un romanzo di Martin Amis. L’angoscia è così coinvolgente, gli attori e il regista sono così bravi, che ogni tanto abbiamo bisogno di consolarci pensando che i bestioni veri alla fine furono sconfitti, umiliati, uccisi. Dopo un periodo di vittorie anch’essi provarono il dolore che avevano inflitto alle povere vittime e videro distrutte le loro famiglie bestiali. Furono sconfitti e uccisi. Me lo ripeto con soddisfazione. Alcuni si salvarono, ma provarono per il resto della vita la vergogna e il disonore. I loro figli ebbero la possibilità di conoscere un’altra realtà e di disprezzare i genitori.
L’oscena felicità di quelle oscene famiglie, fortunatamente, fu distrutta.