18 aprile 2020
San Miniato (PI)

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(“Tu sì ‘na malatia / Ca mə passa si tu stai cu me“)
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Di sera, dopo cena …
Cena. Una parolona! È passato del tempo da quando cenavo! Parmigiana di melanzane o spaghetti aglio, olio e peperoncino, o alla puttanesca, con le olive nere che lasciano in bocca un dolce sapore amarognolo. Altri tempi.
Ricominciamo daccapo.

Di sera, dopo avere ingerito uno yogurt, un po’ di frutta, un caffè, dopo avere visto il telegiornale, in qualunque stagione, ma soprattutto in primavera, mi piaceva fare un giro per il centro storico: guardare le strade e le case di San Miniato mentre piano piano questa parte di mondo si inoltrava nella notte.
La scusa era portare in strada l’umido, l’indifferenziato, il vetro, la plastica, la carta, secondo i giorni.
Quando non si faceva la raccolta differenziata (se scrivo “bei tempi” sarò sottoposto a fucilazione o m’impiccheranno a un lampione?), la scusa era portare giù il sacchetto della spazzatura, per buttarlo nel capiente contenitore che stava tutto il giorno in strada, mogio mogio, in attesa di essere sollevato e svuotato nel camion dell’immondizia. A volte i contenitori non riuscivano nell’impresa di non farsi notare, perché traboccavano di sacchetti, ma non era colpa loro. Sarebbe bastato aumentare la frequenza dei camion per la raccolta, disporre contenitori separati, come per il vetro, utilizzare videocamere di sorveglianza per cogliere sul fatto e multare gli incivili. Si sarebbe evitato il triste spettacolo dei sacchetti gonfi di bottiglie di plastica o dei cosiddetti rifiuti indifferenziati che a volte, di sera e per tutta la notte, fanno bella mostra di sé davanti alle porte e ai portoni. Non tutte le sere, ma quando accade non è un bello spettacolo.
Che fine hanno fatto i vecchi contenitori? Non ne ho idea.

Trovandomi a scendere dal secondo piano fino davanti al portone, non mi andava di risalire subito e passare la serata davanti al televisore. A quel punto avevo già letto alcune pagine di un libro, avevo già lavorato al computer, se fossi risalito subito avrei finito col dormicchiare mentre i politici si rubavano la parola.
Per un’ora, o anche di più, mi godevo il centro storico, passeggiando e facendo delle soste, secondo l’ispirazione del momento.
Due passi lungo via Angiolo del Bravo e sono in piazza Buonaparte, raggiungo il palazzo che ricorda i parenti toscani del famoso còrso. Sto pensando che se avessero dedicato un córso, anziché una piazza, a Napoleone, potrebbe essere chiamato il córso del còrso. Se qualcuno avesse fatto una corsetta in quella via, avrebbe potuto dire: «Ho córso nel córso del còrso»; se poi un turista proveniente dalla Corsica avesse fatto una corsetta, qualcuno avrebbe potuto descrivere l’evento con queste parole: «Il còrso ha córso nel córso del còrso».
La piazza ha la forma di un triangolo. In uno dei suoi punti notevoli, credo nel baricentro (tanti anni di insegnamento non passano senza lasciare traccia), c’è la statua del granduca Leopoldo II d’Asburgo-Lorena, il re travicello di Giuseppe Giusti.
Non ho mai avuto in simpatia i nobili e i sovrani, ma, in fondo, questo Leopoldo doveva essere un buon diavolo: aveva, sembra, un carattere mite; lo chiamavano Canapone, per i capelli biondicci, anche Broncio, per il labbro inferiore sporgente; se si guarda bene la faccia, sembra che stia per scoppiare a piangere. Si faceva paragonare da Giusti a un pezzo di legno, a un re travicello, appunto, nascondendo, forse, la stizza (da qui il broncio).
Ha il merito (la statua ha il merito) di farmi venire in mente quei versi deliziosi, che ricordo da quando le poesie si imparavano a memoria: la bella memoria analogica di una volta, abbandonata dai maestri e dai professori, e, di conseguenza, dagli studenti, che conoscono solo la memoria di internet.

Ci devono essere dei depositi delle cose abbandonate, da qualche parte: i vecchi contenitori per la spazzatura, la memoria non digitale, non trasformata in una sequenza di bit.
Saluto il re travicello piovuto ai ranocchi e percorro la lunga via Paolo Maioli, che, vista dall’alto, dalla Rocca di Federico, conferisce un fascino particolare a questa parte del centro storico. Passo davanti alla residenza per gli anziani Del Campana Guazzesi, in via Pietro Bagnoli, che, per fortuna, non è stata travolta dalla tragedia attuale: non è, come altre, all’onore delle cronache e all’attenzione della magistratura.
Di fronte alla RSA, il convento delle monache di clausura e la piccola Chiesa di San Paolo, preferita dalle persone religiose della mia famiglia.
Raggiungo l’antico Ospedale Degli Infermi in piazza XX Settembre, con il campanile di Santa Caterina incastonato nello stesso edificio. Dopo un po’ mi trovo sulla grande curva di via Francesco Ferrucci, il fiorentino che, si racconta, disse a Maramaldo: «Vile, tu uccidi un uomo morto».

Se fosse pomeriggio, proseguirei sulla strada che porta fuori del paese, mi immergerei tra gli olivi, supererei il convento dei cappuccini, sempre chiuso, la frazione di Calenzano, il cimitero.
A volte interrompevo il percorso per una sosta nel cimitero di campagna, nel quale si può entrare a qualunque ora. Basta spostare un paletto che tiene unite le due ante del cancello e si entra. In qualunque giorno, a qualunque ora è possibile portare i fiori freschi o sostare per ricordare i morti.
Non è il cimitero di San Miniato, è un piccolo cimitero; serve, credo, unicamente la frazione di Calenzano, pochi abitanti, per cui è rimasto uguale da quando l’ho scoperto, tanti anni fa, nelle mie passeggiate in campagna. Una tomba nuova, ogni tanto, ma nel cortile c’è abbastanza spazio.
Un’unica tomba di una persona che conoscevo in vita: un vecchietto di Calenzano che, mi raccontò la vedova, diede segni di malessere, fu ricoverato in ospedale, fu operato, uscì dall’ospedale per essere portato in questo cimitero.
La vedova, una vecchina con cui scambiavo due chiacchiere ogni volta che passavo di là, mi raccontò che la nipote, a quei tempi una bambina, era andata a trovare il nonno e aveva lasciato sulla tomba un giocattolino. Volli andare a vedere il giocattolo.
Non dico nulla di nuovo, ma mi sembra che in questo gesto sia il senso del carme Dei Sepolcri di Ugo Foscolo e il motivo dell’emozione che quei versi mi suscitano al ricordo. Il gesto di una bambina, i versi di un poeta.

Ma perchè pria del tempo a sè il mortale
invidierà l’illusïon che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi? … … …

I miei morti riposano in un cimitero lontano; mi è complicato andare a trovarli. Vado in questo piccolo cimitero di campagna quando voglio stare un po’ con loro, perché i morti non sono confinati in uno spazio determinato, si trovano dappertutto (spero). In questo piccolo cimitero è più facile ricordarsi di loro.

… … … Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi, … … …

In un pomeriggio non troppo caldo, superato il cimitero, andrei avanti, percorrerei parecchi chilometri, felice di sentire i muscoli delle gambe che mi spingono; addirittura proverei, in una bella giornata primaverile o autunnale, a fare il giro largo, per rientrare in paese da tutta un’altra parte.
Ora è impossibile: l’emisfero su cui mi trovo si inoltra sempre più verso la notte, che, dai tempi preistorici, ci fa un po’ paura. Di notte vogliamo vedere i nostri simili, possibilmente quelli con aspetto rassicurante.

È necessario abbreviare il percorso.
Dopo avere lanciato uno sguardo affettuoso alle colline coperte di olivi e illuminate dalla luna – uno sguardo affettuoso “… su gli olivi, su i fratelli olivi / che fan di santità pallidi i clivi / e sorridenti” (La sera fiesolana, Gabriele D’Annunzio) – raggiungo il piazzale con il parcheggio, punto alle scalette che portano dal vicolo Borghizzi al comando della polizia municipale.
Percorro via Pietro Bagnoli all’inverso rispetto a prima, poi, dopo via Paolo Maioli, sono di nuovo in piazza Buonaparte.

Non prendo la via più breve per tornare a casa, ma punto al vertice sinistro del triangolo e m’inerpico lungo via de’ Mangiadori, in forte salita, fino alla parrocchia di Santo Stefano. Qui potrei piegare ad angolo acuto, a destra su via Pietro Rondoni, la più breve per tornare a casa, ma voglio camminare ancora un poco. Vado avanti, diritto, sempre per via Pietro Rondoni. Supero l’edificio della scuola media, dove Carducci fece un anno di supplenza (allora era Istituto Magistrale), s’innamorò della bella figlia del notaio, fu sorpreso mentre la baciava, dovette scappare (così si dice) … e scrisse una pagina che ha un bellissimo incipit (lo ricordo a memoria, non la memoria del computer o dello smartphone, la memoria analogica che ho in dotazione come ogni essere umano).

Come strillavano le cicale, giù per la china meridiana di San Miniato al Tedesco, nel luglio del 1857!

(Le risorse di San Miniato al Tedesco, Giosuè Carducci)
Il Tedesco era Federico Ruggero di Hohenstaufen.

Scavalco, a sinistra, lo sdrucciolo Gargozzi, il vicolo stretto e ripido, sdruccioloso, che mi porterebbe al vicolo carbonaio, un lungo, antico percorso campestre che gira intorno alla base della collina su cui poggia l’abitato di San Miniato. È un percorso molto interessante, antico, piacevole, adatto alla prima parte della giornata, non alla sera.
Da via Pietro Rondoni, proseguendo per via Vittime del Duomo, raggiungo piazza della Repubblica e l’imponente seminario vescovile.

Se fosse pomeriggio proseguirei diritto: via Augusto Conti, via Ser Ridolfo …
Andando diritto, passerei davanti alla Chiesa di San Domenico (piazza del Popolo), al Palazzo Grifoni, alla Chiesa della Santissima Annunziata (molti ricordi), al Conservatorio Santa Chiara. Raggiungerei l’altra strada che mi piace percorrere per andare verso la campagna e gli olivi.

Non voglio esagerare, anche se la serata è dolce e invita a camminare.

Davanti al piazzale del seminario devio, mi dirigo verso piazza Duomo.
Qui mi fermo ad ammirare il paesaggio illuminato dalla luna, la facciata della Cattedrale, dedicata a Santa Maria Assunta e a San Genesio.

Se fosse un dolce pomeriggio primaverile, prenderei la strada che porta, dolcemente in salita, su larghe scale, fino alla Rocca di Federico, ammirerei il glicine che delimita una proprietà privata che ho sempre invidiato – per la posizione e per il glicine imponente – salirei fino a rendere omaggio a Pier delle Vigne, morto suicida, dopo essere stato accecato, vittima dell’infamia dei cortigiani e della superficialità del grande imperatore. Gli renderei omaggio nell’unico modo possibile, con la memoria dei versi di Dante.

La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti. 

(Inferno, Canto XIII)

Si è fatto tardi. Non c’è tempo di salire fino alla Rocca.

Proseguo verso viale don Minzoni, che porta al convento e alla Chiesa di San Francesco. Le panchine lungo la strada mi richiamano alla memoria (sempre di memoria analogica si tratta) il piccolo, tenero Shoni, che faceva la guardia mentre leggevo nei pomeriggi estivi.

Il ricordo di Shoni, di tutto ciò che ha circondato la sua vita e la sua morte, mi getta in una tristezza infinita, oppressiva, da cui mi risolleva, alla fine del viale, l’apparire della chiesa e del convento di San Francesco (sec. XIII – XV).

Altissimu, onnipotente, bon Signore / tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. / Ad te solo, Altissimo, se konfano, / et nullu homo ène dignu te mentovare.

(Laudes creaturarum, Francesco d’Assisi)

Comincio a percorrere la via in discesa che mi porta verso casa.

No, torno indietro. Mi fermo nella piazza, di fronte alla chiesa, su quella panchina di pietra dove a volte vedevo, non visto, mia madre napoletana parlare con le signore toscane e mi chiedevo, spiando divertito da lontano: ma come fanno a capirsi? Miracolo della comunicazione delle vecchie signore che si riunivano e chiacchieravano prima della messa serale in una cappella della grande chiesa medioevale.
Mi fermo su quella panchina, innanzitutto perché il tempo presente della mia passeggiata per il centro di San Miniato è presente storico, un modo per raccontare il passato, anche recente, come se fosse attuale. In realtà sono uscito con la mascherina obbligatoria e, dopo avere deposto il sacchetto con la plastica, ho fatto il percorso breve, per via San Francesco, fino a quella panchina. Nessun giro.
Se mi allontanassi troppo dalla mia abitazione rischierei di dover dare spiegazioni ai vigili che eventualmente si trovassero a passare, anche se è tardi. In realtà non ci sarebbe molto da giustificarsi, perché il centro storico è deserto, la città sembra abbandonata dopo un cataclisma, non c’è nessuno per strada da cui prendere o a cui trasmettere virus.
Anche la mascherina è inutile, ma c’è una legge regionale: la legge è legge.

Davanti alla legge sta un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede il permesso di accedere alla legge. Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire.

(Il Processo, Franz Kafka)

Ma, soprattutto, non ho voglia di immergermi in un centro storico deserto, deserto come durante o dopo una pestilenza. Mi rattrista troppo.

Quando uscivo dal portone, in epoca a. v. (avanti virus), mi sentivo ancora a casa, protetto.
Le strade del centro storico e i muri delle case mi sembravano un’estensione della mia casa, della stanza da letto, della libreria, della cucina.
Ora, in epoca d. v. (dopo o durante virus), chiuso il portone, mi sento in pericolo: prima di appoggiare la mano sulla panchina ho messo un guanto usa e getta.

Mi piacerebbe avere il coraggio di restare qui per tutta la notte, su questa panchina di pietra (che si è ridotta in cattive condizioni e nessuno ripara), in questa piazza deserta, davanti alla facciata della chiesa di San Francesco, davanti all’immagine di San Francesco sulla facciata della chiesa, davanti alla collina coperta di orti che sale fino alla Rocca di Federico.
Mi piacerebbe avere il coraggio di restare seduto a riflettere, a ripescare versi nella memoria, ogni tanto assopirmi, risvegliarmi, rannicchiarmi, stringermi per ripararmi dal freddo, assopirmi di nuovo fino all’alba. Come un vecchio barbone, povero, con un bagaglio inesauribile di versi nella memoria.

Alle prime luci del mattino tirerei fuori dalla borsa a tracolla il mio smartphone, avvierei l’applicazione musicale e farei risuonare in questa piazza deserta L’illogica allegria, di Giorgio Gaber.
Forse, se avessi questo coraggio, avvertirei un’illogica allegria, un’allegria fuori luogo (che vergogna!) in questa situazione in cui si fa fatica a non piangere.
E me ne tornerei contento a casa.

L’Illogica Allegria (Giorgio Gaber) – 1981/1982

Da solo, lungo l’autostrada,
alle prime luci del mattino,
a volte spengo anche la radio
lascio il mio cuore incollato al finestrino.

Lo so del mondo e anche del resto,
lo so che tutto va in rovina,
ma di mattina, quando la gente dorme,
col suo normale malumore,
mi può bastare un niente,
forse un piccolo bagliore,
un’aria già vissuta,
un paesaggio, che ne so.

E sto bene;
io sto bene come uno quando sogna,
non lo so se mi conviene,
ma sto bene, che vergogna!
Io sto bene,
proprio ora proprio qui,
non è mica colpa mia
se mi capita così.

È come un’illogica allegria.
di cui non so il motivo,
non so che cosa sia.
È come se improvvisamente
mi fossi preso il diritto
di vivere il presente.

Io sto bene.
la la la la la la
quest’illogica allegria
proprio ora proprio qui.

Da solo,
lungo l’autostrada,
alle prime luci del mattino.

(Giorgio Gaber)