30 settembre 2019 h 18.00
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto

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Teatro
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Nel posto dove sono nato, nel tempo in cui sono cresciuto – nonostante non ci fosse l’abitudine di andare a teatro – il Teatro di Eduardo era una delle gioie della vita, per giovani e vecchi, persone ignoranti e persone istruite.
Quando ero piccolo la mia famiglia e le famiglie dei miei amici non andavano a teatro. Abitavamo in provincia e, prima che le piccole Fiat Cinquecento ci mettessero in condizioni di spostarci liberamente, era complicato andare di sera a Napoli e rientrare a casa di notte, dopo lo spettacolo.
Il Teatro San Ferdinando, in una traversa di via Foria, era uno dei più prestigiosi.
Dopo vicende drammatiche, principalmente il bombardamento nell’ultima guerra, nel dopoguerra era stato comprato da Eduardo De Filippo, che, indebitandosi con le banche, l’aveva ricostruito e rimesso a nuovo.

Nella mia famiglia il nonno materno, don Mario di Mattia, da giovane si era stabilito a Napoli per lavorare, provvisoriamente, come cuoco, pasticciere.
Poi era tornato nel paese, si era sposato, era diventato padre di tre figlie, e, dopo la morte della moglie Carolina, avvenuta molto presto, si era ritirato fra la casa antica in via San Rocco e i suoi piccoli appezzamenti di terreni agricoli – Quarto (abbascə Quartə), via Selva (a viə i Sévərə) – che coltivava con amore..

Don Mario era dotato di una bella voce, sapeva cantare ed era allegro, di compagnia.
Quando «tənévə gèniə», «aveva voglia, era dell’umore giusto», durante le feste in famiglia, a cui collaborava con la sua arte culinaria, intratteneva i parenti (che, a quei tempi, erano tanti), cantando le vecchie canzoni napoletane e interpretando pezzi di sceneggiate, parti di avanspettacolo a cui aveva assistito in gioventù, quando viveva e lavorava a Napoli.
Per questa sua esperienza giovanile, mi raccontava zia Tanina, la sorella di mia nonna che viveva con noi, don Mario era considerato un uomo particolarmente sveglio, uno in gamba (a quei tempi nei paesi si era un po’ addormentati).

La mia prozia raccontava che in famiglia, per evidenziare la sua capacità di affrontare e risolvere i problemi, si diceva: «don Mario ha cammənatə é vriccə i Napulə», «ha calpestato le selci di Napoli»; “é vriccə” si dovrebbe pronunciare senza stacco tra articolo e sostantivo, con accento tonico sulla i e raddoppiando la vu: /evvritƒə/.
Notare il “don”, prefisso di rispetto (dal latino Dominus), anticamente riservato ai nobili, poi, durante e dopo la dominazione spagnola, diffuso in vasti strati della popolazione, utilizzato anche in famiglia (i figli davano il voi ai genitori).

Siamo nel primo novecento: quella diecina di chilometri che separa Giugliano dalla città costituiva un ostacolo impegnativo per la maggior parte dei paesani – a Napoli si usava il termine “cafoni”, dispregiativo o affettuoso, secondo le circostanze (squisito era il “pane cafone”) – abituati a trascorrere gran parte della vita tra il centro abitato del paese agricolo e la bella campagna circostante; bella a quei tempi!

È diventata la “terra dei fuochi” – maledetti i responsabili di questo disastro!

La campagna, fertilissima, dava da vivere, con molteplici attività, alla maggior parte degli abitanti del paese, il cui numero era lontano dalle cifre sbalorditive che avrebbe raggiunto negli ultimi decenni.
A Napoli andavano gli studenti, una minoranza della popolazione giovanile, i professionisti (soprattutto gli avvocati, che raggiungevano il Tribunale), i lavoratori stagionali, alcuni dei quali erano ragazzi che volevano sperimentare un modo di vivere più movimentato, più caotico, certamente più divertente.

Non credo che mio nonno, da giovane, avesse una grande necessità di trovare un lavoro a Napoli, ma, nel ricordo di chi l’ha conosciuto (io non ho fatto in tempo, ero piccolo quando è morto), era irrequieto, desideroso di fare esperienze.
A calmarlo, ad attenuare la sua irrequietezza, contribuì la Grande Guerra, che lo rese vedovo: Carolina morì nel 1918 per l’influenza spagnola, a ventotto anni, lasciando tre figlie.

Gli piaceva cantare; si vantava di riuscire a produrre un “Do di petto”, espressione che, nel ricordo di alcuni, ripeteva volentieri (suppongo sia una modalità particolarmente brillante di emissione di una nota).

Mia madre rammentava sempre un pezzo di Guapparia (intesa come genere teatrale) che don Mario accompagnava alla famosa, omonima canzone (testo di Libero Bovio): «Scətàtəvə guagliunə e malavita, ca è ntussəcósə assaiə sta serenata; iə sóngh’o nnammuratə e Margherita, a femməna chiù bella da Nfrascata» (per agevolare la lettura utilizzo accenti tonici e grafici dove mi sembra utile; nella poesia la pronuncia tende a italianizzare, anche per esigenze di rima e di assonanza: malavita, Margherita; serenata, Nfrascata).

«Svegliatevi, ragazzi di malavita, è dispettosa e carica di disappunto questa serenata; io sono l’innamorato di Margherita, la donna più bella del quartiere Arenella».

Il quartiere Arenella, la parte più alta della zona collinare, si chiamava Nfrascatə (nella canzone Nfrascata) perché allora non era ricoperto dal cemento, come oggi, ma da frasche, da alberi che offrivano riparo dal sole nella stagione calda e, con le radici, consolidavano il terreno; oggi, nelle città, ci arrostiamo d’estate e, quando piove, ci ripariamo a stento dalla immersione forzata negli impetuosi torrenti in cui si trasformano le vie impermeabili all’acqua.

Attento a non mitizzare il passato! Me lo ripeto come un mantra; però la terra dei fuochi e la cementificazione delle città sono fatti.
Una voce interna mi dice: anche l’ignoranza, molto più diffusa in passato, l’analfabetismo, la miseria, lo sfruttamento dei lavoratori, sono fatti. Anche due guerre mondiali e la parentesi insieme terribile e ridicola del fascismo sono fatti.

Don Mario, dunque, amava il genere teatrale della Guapparia e, in particolare, la canzone di Libero Bovio (musica di Rodolfo Falvo), che si può facilmente ascoltare nella interpretazione di cantanti napoletani di ieri e di oggi.

Mia madre raccontava che don Mario, sempre se «tənévə gèniə», aggiungeva un pezzo recitato lunghissimo, che lei ricordava solo in piccola parte.
La parte recitata faceva così: « … o schiaffə chə distə a pàtəmə, staserə o pavə a carə prèzzə … », « … lo schiaffo che hai dato a mio padre, stasera lo paghi salato …».

Solo questa frase mi è rimasta nella memoria; non sono riuscito a trovare il testo completo. Se qualcuno lo trova, mi fa un piacere.

Qualcuno l’ha trovato: ne parlo nella nota in fondo.

Erano opere teatrali che facevano riferimento a una concezione della vita basata su valori ancestrali: si protegge la famiglia con la forza fisica, con il coraggio; non si riconosce una organizzazione sociale superiore, legittimata ad amministrare la giustizia.

Ho riferito ricordi non miei, raccontati da testimoni che hanno fatto in tempo solo ad affacciarsi sulla modernità, a dare un’occhiata prima di andarsene; questi racconti mostrano che il gusto per il teatro circolava in famiglia, trasmesso da don Mario, il quale aveva un pubblico affezionato: i parenti riuniti accanto al camino, nelle lunghe serate invernali, quando non c’era la televisione e la radio non era invadente.

Nella mia infanzia e adolescenza ricordo che andavamo tutti a teatro quando la signorina annunciava in televisione: «Per la serie Il teatro di Eduardo, trasmettiamo la commedia di Eduardo De Filippo “Filumena Marturano” (oppure Napoli Milionaria, Il sindaco del rione Sanità, Questi fantasmi, Le voci di dentro, eccetera)».

Era una festa, per tutti: bambini, adulti, vecchi. Una gioia.

Non so se a quei tempi si facessero rilevazioni di ascolto o di gradimento, ma certamente in quelle sere tutta la popolazione che si esprimeva in lingua napoletana, o affine, era attaccata alla televisione; credo che nessuno, in quell’ampia area geografica (non solo del Sud), perdesse una commedia di Eduardo, come nessuno perdeva il Festival di Napoli.

Nei giorni seguenti ci ripetevamo le battute più divertenti, per rinnovare le risate; uno dava l’avvio, l’altro continuava, capendo a volo e ricordando la sua parte.
In questo modo, anche noi facevamo teatro.

Nella tarda adolescenza, quando ho cominciato a muovermi liberamente (dopo la liberazione dai rigidi vincoli scolastici) e a vivere la maggior parte del tempo a Napoli, ho seguito le attività teatrali che spuntavano come funghi in quel periodo post sessantottino; in particolare ricordo un teatrino sotto Port’Alba dove si facevano sperimentazioni, ma anche rappresentazioni di testi classici con pochi mezzi.

Fra i molteplici interessi di Maria Di Lauro (vedi “poesie di Maria”, su www.giovanniguarino.eu) c’era il teatro; non solo interesse teorico e letterario, ma pratico: frequentava quel mondo e partecipava, in modo incostante, secondo la sua indole, alle attività che si svolgevano nell’ambiente teatrale partenopeo.

La incontravo ogni fine settimana a casa del cugino Gennaro Di Lauro, mio amico; la casa – in via Concezione, appartenuta al nonno di entrambi, Veterinario consortile di Giugliano, Melito, Mugnano – aveva davanti un ampio spazio limitato da un alto muro di cinta ed era “protetta” da un arancio che produceva frutti dolcissimi, un arancio che mi si parava davanti con la sua imponenza quando, per richiamare l’attenzione sulla mia presenza, bussavo con il battente metallico a martello sul portone aperto: toc toc.
Sul terrazzino in alto, o dalla finestra della cucina, apparivano le zie di Gennaro: zia Gianna, zia Titina, che m’invitavano a salire. Questo accadeva il sabato e la domenica.

Durante la settimana passavo le giornate a Napoli (avanti e indietro nel 160 nero); il sabato e la domenica, per abitudine radicata fin dalla prima adolescenza, andavo in via Concezione, dove, spesso, oltre a Gennaro, incontravo Maria, che era più grande di noi, faceva la maestra elementare, leggeva molto, scriveva poesie, frequentava intellettuali napoletani e attori importanti, tra i quali Giorgio Albertazzi.

Mi è venuta in mente Maria, che in famiglia chiamavano Pupa, ricordando i miei rapporti adolescenziali con il teatro, perché una volta mi prestò un libro per farmi leggere due opere teatrali di Sartre.
Il libro è un Oscar Mondadori, s’intitola Morti senza tomba – Le mani sporche – drammi di J. P. Sartre (scritto proprio così, con le iniziali).
Non mi chiese di restituirlo e io non lo feci, anche perché, dopo un po’, organizzai in modo diverso la mia vita, avviai un capitolo nuovo e Giugliano sparì dal mio orizzonte.

Qualcuno potrebbe dispiacersi per ciò che sto per scrivere, ma è la verità (ammesso che esista una verità). Non ho fatto l’errore di Maria: ho cambiato aria.

Maria non ha mai staccato definitivamente il cordone ombelicale che la teneva legata al “natio borgo selvaggio” (che, forse, per lei non era natio, perché mi sembra fosse nata a Genova, dove aveva trascorso parte dell’infanzia): ogni tanto si trasferiva, a volte in posti abbastanza vicini, poi tornava; infatti è morta a Giugliano.

Il libro che mi diede in prestito, o, forse, mi regalò, non ricordo, si trova ancora nella mia libreria e, guardandolo, mi viene in mente che fu proprio l’esperienza di Maria (oltre alla necessità di trovare una strada) a suggerirmi di costruire una mia soluzione di vita svincolata dal posto dove il caso mi ha fatto nascere e crescere negli anni della formazione.

Nel periodo a cui mi sto riferendo (anni ’70) qualche volta sono andato al San Ferdinando e al Politeama in via Monte di Dio, collina di Pizzofalcone, in cima a vicoli che sono teatro all’aperto.
Aprivano molti teatrini in quel periodo, generalmente gestiti da studenti; duravano poco.

Nei teatri importanti si esibiva la Nuova Compagnia di Canto Popolare diretta da Roberto De Simone (la possibilità di collegare cultura classica e cultura popolare aveva conquistato la mia generazione). Si rappresentavano le opere teatrali di Giuseppe Patroni Griffi, Ricorda con rabbia di John Osborne, Erano tutti miei figli di Arthur Miller; sono le opere che ricordo come se le avessi viste ieri, perché hanno lasciato un segno.
Oltre, naturalmente, a Our town (Piccola città) di Thornton Wilder, che avevo visto in televisione e rividi in uno scantinato sotto Port’Alba (la scenografia lo consentiva).
Questo piccolo capolavoro, perfetto, mi colpì profondamente, non so perché, o forse lo so, riesco a immaginarlo, ma è troppo complicato da spiegare.

In due occasioni, intorno ai primi anni ‘80 (mi ero trasferito in Trentino e durante le vacanze natalizie cercavo di fare il pieno di napoletanità) provai a comprare un biglietto per assistere a una delle ultime rappresentazioni del Teatro di Eduardo.

Eduardo era molto anziano, aveva una resistenza fortissima sul palcoscenico; insieme a lui c’era il figlio Luca, la compagnia completamente rinnovata. Finiva a mezzanotte con alcune poesie.

I giornali riportavano che la gente usciva commossa dal teatro: era una specie di omaggio della città a uno dei Lari protettori della casa (Napoli, a quei tempi, era tutta una casa, ma forse Napoli è sempre stata ed è un’unica casa con tante finestre).

Non riuscii a raggiungere la cassa, in entrambe le occasioni.

Si arrivava davanti al San Ferdinando di mattina presto e si trovava una fila lunghissima, cominciata alle sei del mattino; dopo ore di fila si scopriva che i posti erano finiti, anche aggiungendo poltroncine provvisorie accanto alle poltrone normali.
Fu impossibile riuscire ad accaparrarmi un biglietto, tutti volevano entrare; a dire il vero, oltre alla stima nei confronti di Eduardo, c’era anche l’idea di poter assistere a un evento che non si sarebbe più ripetuto.

Eduardo aveva subìto interventi al cuore e ogni anno circolava la notizia che stesse per interrompere definitivamente l’attività.

Così mi sono dovuto accontentare prima delle videocassette, poi dei DVD; in realtà quelle registrazioni sono molto elaborate e studiate nei minimi dettagli (se posso dire: belle, ma un po’ fredde); non c’è nulla delle improvvisazioni e solo un poco delle lunghe pause che, raccontano, caratterizzavano gli spettacoli dal vivo.

Per vedere un po’ della spontaneità degli attori del teatro classico napoletano, bisogna guardare le vecchie registrazioni, quelle con la vecchia compagnia; attori nati da attrici che partorivano dietro le quinte e recitavano fino all’ultimo momento prima del parto, bambini utilizzati per interpretare, per esempio, Peppeniello (Pəppəniellə) in Miseria e Nobiltà di Eduardo Scarpetta (Eduardo volle che anche il figlio esordisse con quel personaggio).

Le registrazioni televisive più vecchie del Teatro di Eduardo furono proposte e realizzate con i mezzi d’epoca, praticamente dal vivo, da un funzionario della Rai, un delegato alla produzione: Andrea Camilleri.

Da questo racconto si evince che Eduardo De Filippo per me è un punto fermo.

Potrei dire: è un riferimento, un autore attore che stimo, ma mancherebbe l’elemento affettivo e sarebbe insufficiente.
Per essere preciso devo dire: è un punto fermo.

Le sue opere teatrali sono datate, certamente, come sono datate le opere di Pirandello o di qualunque autore; purtroppo ogni prodotto dell’attività umana ha una data di composizione. Molti hanno anche una data di scadenza.

Un classico, un capolavoro, ha la data di composizione; non scade mai.
Naturalmente bisogna avere voglia di fare un lavoro: capire il modo di esprimersi dell’autore, legato all’epoca e al luogo in cui è vissuto.

Non puoi “entrare” nell’Amleto se non sei disposto a studiare la lingua di Shakespeare.
Siccome non possiamo essere esperti di tutte le lingue, dobbiamo ricorrere all’aiuto degli esperti, di quelli che hanno approfondito; siamo costretti a utilizzare una traduzione.
Però bisogna tenere presente che tradurre, come suggeriva Umberto Eco, è “Dire quasi la stessa cosa” (Bompiani, sottotitolo: Esperienze di traduzione). Il traduttore ci mette del suo, anche involontariamente, soprattutto se è un artista. E non bisogna dimenticare che esiste l’intraducibile, perché troppo legato a fattori individuali, alla personalità dell’autore: un modo di esprimersi che lui stesso non saprebbe spiegare, o tradurre in un’altra lingua (ammesso che nell’altra lingua sia possibile trovare un’espressione corrispondente). In questo caso il traduttore escogita una soluzione che va al di là delle intenzioni dell’autore o delle intenzioni del testo, una soluzione che può essere una sua invenzione, non arbitraria e irrispettosa, prudente ma necessaria.
Insomma, un lavorone.

Ne vale la pena se quell’opera è in grado di parlare a tutti gli uomini, indipendentemente dal luogo e dal tempo: se, cioè, non ha la data di scadenza.

Eduardo De Filippo è vissuto in un’epoca precisa e in determinati luoghi (in senso lato: un luogo può essere anche un libro letto o una persona conosciuta); si esprime utilizzando la lingua e riferendosi al modo di vivere di quell’epoca in quei luoghi.
Ciononostante, a me sembra che possa parlare a tutti gli uomini, anche a noi che viviamo in tempi e luoghi completamente diversi.

C’è bisogno dell’aiuto del traduttore, tenendo presente che può metterci del suo.

Questa è la funzione svolta da Mario Martone con la riduzione, prima teatrale, ora cinematografica, di Il sindaco del rione Sanità di Eduardo De Filippo.

È riuscito questo lavoro di traduzione?

A me sembra sia riuscito, per l’esperienza emotiva che ho vissuto, ma anche a giudicare dall’accoglienza che ha avuto il film in posti lontani, dal punto di vista linguistico, da quelli nei quali l’opera è nata.

Nel cinema Odeon di Firenze il regista Martone ha presentato il film in una sala piena; nel cinema Odeon di Pisa mi faceva piacere sentire alle mie spalle un vecchietto che, con accento toscano, ogni tanto commentava con i vicini ciò che vedeva sullo schermo; partecipava.

È bello quando il pubblico partecipa.

Ottima idea lasciare la lingua originale – solo qua e là italianizzata (come è parlata oggi a Napoli) – lasciare le frasi precise, incisive, efficaci del napoletano, aggiungendo chiare didascalie in italiano, che, a volte, sono servite anche a me.

La lingua utilizzata da Eduardo fra un po’ non ci sarà più, credo; bisogna rassegnarsi: la lingua cambia, si trasforma, nasce, muore. È successo al latino, al greco antico, al sanscrito. Succederà anche alla lingua napoletana.

In realtà le lingue non muoiono: l’italiano, il francese ecc sono la forma attuale del latino, il greco moderno è la forma attuale del greco antico. Abbiamo a disposizione, nei testi scritti, la letteratura, il pensiero espresso nelle lingue antiche, a cui, volendo, possiamo ancora attingere, pur esprimendoci normalmente in una lingua che si è arricchita di vari influssi ed è molto diversa dalla lingua madre.

Non condivido la costernazione di chi constata l’invasione nell’italiano degli inglesismi e teme la scomparsa della nostra lingua.

In futuro, probabilmente, nella penisola italiana si parlerà una lingua che ha per base l’inglese (o il cinese, o l’arabo … che ne sappiamo!) e conserverà solo alcuni elementi della bella lingua che parliamo ora.
Sarà la lingua dei nostri posteri; noi non ci saremo (è uno dei motivi per cui non mi farei mai congelare per “risorgere” in seguito, e prego di lasciar stare il mio DNA, quando avrà finito di svolgere la sua funzione nel corpo attuale).

La lingua utilizzata da Pirandello in molte opere teatrali non è mai esistita nel parlato; se si riflette su alcuni testi, si nota che i personaggi parlano la lingua scritta di un letterato: non sbagliano un congiuntivo, non hanno influssi dialettali, usano termini e costruzioni ricercate.

Eduardo utilizzava una lingua che oggi si parla in modo diverso da come la parlava lui e, forse, in futuro sarà una lingua morta; Pirandello utilizzava la lingua italiana in un modo che non esisteva nella realtà dei parlanti.

Eppure, sia Pirandello che Eduardo comunicano con noi, perché le loro opere non sono come lo yogurt, che, come tutti sanno, dopo una certa data è acido e indigeribile.

La Guapparia, come viene rappresentata in Il sindaco del rione Sanità (prego, non confondere con la camorra attuale, che non c’entra niente) non esiste più.
Già all’epoca di Eduardo si stava trasformando e andava scomparendo.
Parlare di valori nella camorra è come parlare di dieta vegana in una macelleria.
Immaginare che un vecchio delinquente fosse mosso dal desiderio di aiutare le vittime dell’ingiustizia, non difese da quell’altra Giustizia, quella delle istituzioni che proteggono solo i potenti e gli imbroglioni, è un’invenzione di Eduardo che ha solo pochi agganci con la realtà dell’epoca e nessuno con la realtà attuale.

Nel film il “guappo” è giovane, vive nel mondo di oggi, non lucra sulla disperazione della gente (la droga, la prostituzione), vuole proteggere i deboli e impedire un omicidio, fino al sacrificio personale: questa è un’invenzione di Mario Martone.

Nel teatro, o nei film, si rappresenta l’arte, non la realtà.

Conta che ci emozioniamo quando Amleto dice: «He was a man», «Era un uomo», riferendosi al padre defunto, e dimentichiamo l’assurdità di una storia in cui il morto è tornato sulla terra per rivelare al figlio l’autore del delitto.
Ci emozioniamo quando, alla fine, dice: «The rest is silence», «Il resto è silenzio».

Nell’opera teatrale di Eduardo, dopo la morte del protagonista, c’è un’appendice in poche battute, assente nel film, che apre un capitolo nuovo: la possibilità, mossa dal dottore, che le cose possano cambiare, l’ipocrisia essere sconfitta, rivelando a tutti ciò che è realmente accaduto, a rischio di provocare un bagno di sangue. Con questa conclusione mi sembra che Eduardo si ribelli alla logica perversa del suo personaggio, alla pretesa di cancellare il male dal mondo facendo il male.
Nel film tutto finisce con la morte di Antonio Barracano.
Il resto è silenzio.

Nota

Qualcuno, più bravo di me nella ricerca su internet, mi ha fatto il piacere. Gianluca Cecere ha trovato il testo teatrale da cui la frase riportata è tratta.

Pasquale Ponzillo – Ó Schiaffo – Bozzetto napoletano in versi – terza edizione – Ed. Napoli Domenico Abbatino Libreria teatrale – via Sapienza num. 9 – 1901.
Rappresentato al Real Teatro Mercadante (già Fondo) al Bellini e al S. Ferdinando in Napoli dalla Compagnia diretta dal Cav. Federico Stella e Antonio Allegretti

Dedica:

ALL’ESIMIO ARTISTA ANTONIO ALLEGRETTI
CHE PRIMO DIÉ VITA
AL PROTAGONISTA DI QUESTO BOZZETTO
L’AUTORE RICONOSCENTE

Riporto la serenata cantata da Tore, rispettando la grafia dell’epoca, che era costretta a ricorrere ad artifici per rendere i suoni della lingua napoletana, e non sempre ci riusciva.

Serenata

I
Napole bello mio, Napole caro,
Tu pare nu pezzullo ’e paraviso;
’E vvote, quanno tiene ’o musso amaro,
Pare cumme tenisse ’o pizzo a riso.
Napole bèllo mio, Napole caro

II
A sti bellezze toie, surtanto Rosa,
S’arrassumiglia assaie. Viat’a essa!
Si dorme o stà scetata, è ’a stessa cosa;
Si stà ncuttosa o allera, è sempe ’a stessa.
Che bello naturale, tene Rosa.

I
Napoli bella mia, Napoli cara,
Tu sembri un pezzettino di paradiso.
A volte, quando mostri il muso amaro,
Come se sotto nascondessi il riso.
Napoli bella mia, Napoli cara.

II
A queste tue bellezze solo Rosa
Arrassomiglia* assai, beata lei!
Se dorme o è sveglia è la stessa cosa.
Se è nervosa o allegra, è sempre lei.
Che bello naturale tiene Rosa!

*Per far tornare il numero delle sillabe

Gianluca, che ti devo dire! Grazie